Erano emergenza, problema pubblico, costo per la collettività. Stanno diventando risorsa, vantaggio comune, opportunità economica e occupazionale. I rifiuti stanno cambiando. Cambiano natura, significato e valore, e questa trasformazione è forse una delle svolte economiche più significative del terzo millennio, che ridisegna il rapporto tra produzione e materie prime, cambia i processi industriali e determina conseguenze ambientali e sociali di grande respiro.

Da dove prende il via la svolta? Qual è il meccanismo per cui i rifiuti – uno dei problemi più gravi e costosi nelle economie occidentali nella seconda metà del secolo scorso – oggi si candidano come driver di sviluppo economico?

Il dato di partenza è semplice: negli ultimi dieci anni avviene – in modo sempre più evidente – che alcune tipologie di rifiuti presentino un valore di mercato superiore al loro costo di raccolta e gestione. In molti casi, dopo aver pagato le spese di deposito, raccolta, trasporto, trattamento, recupero, quelle relative alla conformità normativa, ai controlli e alle eventuali certificazioni, si verifica che il materiale finale può ancora essere venduto con interessanti margini di profitto.

In quei casi i rifiuti hanno un rovesciamento di ruolo. La loro gestione non è solo una necessità della collettività. Diventa invece una attività “che sta in piedi da sola”, in grado di sostenere la propria filiera industriale e di alimentare le esigenze di materie prime delle industrie più innovative.

È chiaro che, come tutte le trasformazioni strutturali, la svolta economica non è né semplice né lineare. Ancora oggi vi sono pesanti problemi che rendono imprevedibile e sfuggente questo mercato. 

Per esempio, la discontinuità dei flussi e la volatilità del loro valore commerciale. 

I flussi dei rifiuti non sono continuativi perché – salvo i casi dei sistemi collettivi di cui si parlerà più oltre – le raccolte avvengono in modo frammentario e scoordinato. Moltissimi raccoglitori/gestori competono sugli stessi clienti (imprese ed enti locali) e ciascuno di loro agisce autonomamente rispetto alla destinazione dei rifiuti, scegliendo caso per caso la soluzione più conveniente, con occasionali concessioni all’illegalità. Il risultato è che i recuperatori e i riciclatori – i destinatari naturali dei flussi – devono improvvisare le loro modalità di approvvigionamento senza alcuna certezza, il che impedisce loro di pianificare gli investimenti e razionalizzare la produzione. 

Inoltre il valore commerciale di molte frazioni può subire variazioni potenti. A volte i materiali salgono di valore scatenando euforie di ottimismo (e crescita esponenziale delle industrie dedicate al trattamento e al riciclo) per poi riprecipitare. Negli ultimi dieci anni i rifiuti come le plastiche, i cartoni da imballaggio, il piombo ricavato dalle batterie, gli oli minerali lubrificanti, hanno subito variazioni di prezzo fino al 100% e oltre. Sono spesso oscillazioni legate all’andamento dei prezzi delle materie prime: quando questi salgono il mercato delle “materie seconde” accelera, e viceversa quando scendono. Ma anche alla semplice disponibilità dei materiali (le industrie del riciclo hanno bisogno di materie seconde per non fermare gli impianti e possono entrare in gara sui prezzi).

A questi problemi si aggiunge trasversalmente quello della “tracciabilità”, cioè la possibilità di sapere con esattezza quali quantità e tipologie di rifiuti vengono prodotte, trattate, trasferite a quali destinatari e per quale finalità. I dati al riguardo sono di un’indeterminatezza esasperante. Non solo nell’Italia delle ecomafie, ma in tutta Europa. I rifiuti, nella loro identità bifronte di pericolo/costo e opportunità/guadagno, spariscono nelle direzioni più diverse, travestiti a volte da merci, a volte da scrupolosi adempimenti normativi.

Perché le norme, quelle europee e quelle nazionali, hanno svolto un ruolo determinante nel disegnare la nuova economia dei rifiuti. Sia come acceleratori sia come fattori limitanti. 

Sono state un acceleratore, a partire dalla fine degli anni ’80, perché hanno imposto regole severe e obiettivi chiari per l’eliminazione dei rifiuti. Da questi obblighi sono nate nuove attività e professionalità e il mercato si è ben adattato al cambiamento creando industrie specializzate. 

Ma ora quelle stesse regole mostrano parecchie rigidità. Un segno rivelatore è la nozione di rifiuto – nata nel 1991 con la Direttiva 91/156/CEE – che è inteso come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”. Il termine “disfarsi” allude a qualcosa di inutilizzabile, e vagamente sgradevole, che può ragionevolmente essere conferito a un servizio di igiene pubblica e non consegnato utilmente a un operatore economico che se ne serve con profitto. È come se il rifiuto fosse ancora avvolto, dal punto di vista semantico e operativo, in un alone di inutilità, dal quale può uscire solo con trattamenti specifici e faticosi, che eventualmente ne fanno una materia “riciclata”. E a questa visione si associano le conseguenti contraddizioni normative e complessità procedurali.

Ma malgrado le instabilità e i rallentamenti, la nuova economia dei rifiuti è alle porte, sulla spinta crescente della responsabilità ambientale diffusa, dell’innovazione tecnologica e della necessità di rallentare il prelievo di risorse primarie. Le nuove miniere – urbane o provenienti dai bacini industriali – sono già presenti, in attesa di soggetti adeguati al loro sfruttamento.

 

Dalla responsabilità ai vantaggi economici

Ma quali sono i soggetti più idonei a svolgere il compito? Come va organizzato il sistema produttivo per affrontare una transizione così rapida, cercando di governare i fattori più instabili?

Per prima cosa occorre “armonizzare” le filiere, rendendo i flussi di materia abbastanza consistenti e continuativi da poter razionalizzare i processi industriali.

In altri termini, per affrontare il problema le imprese si devono mettere insieme, comparto per comparto e in qualche caso materiale per materiale.

E qui viene in aiuto proprio quella stessa politica europea che prima segnalavamo un po’ lenta di riflessi dal punto di vista normativo. Infatti, l’Europa adotta un modello, la Extended Producer Responsibility (Epr) e propone un particolare dispositivo per attuarne le regole, il cosiddetto sistema collettivo (o compliance scheme). L’Epr impone ai produttori di merci di farsi carico della gestione dei rifiuti che derivano dalla loro produzione; il sistema collettivo associa le imprese di un determinato comparto con l’impegno di valorizzare una certa quota dei rifiuti immessi nel mercato dalle imprese associate.

La formula risulta immediatamente efficace, perché ripartisce in modo innovativo esigenze pubbliche e interessi privati. La parte pubblica, infatti, stabilisce le regole di funzionamento e gli obiettivi, nel rispetto delle priorità ambientali e dell’ottimizzazione delle risorse; le imprese decidono le regole economiche con cui raggiungere gli obiettivi fissati.

Insomma, i sistemi collettivi si rivelano un’invenzione funzionale che riesce a imporre il bene della collettività come una delle variabili dell’attività d’impresa.

Tra gli anni ’80 e ’90 il modello si diffonde in Europa, nelle filiere dove può essere più facilmente applicato: alcune particolari categorie di rifiuti (oli minerali, batterie al piombo, pneumatici ecc.) e due grandi comparti legati ai beni di consumo (imballaggi e Raee).

Rispetto alla formula gestionale – come si è detto affidata alle imprese – viene realizzata una moltitudine di variazioni sul tema. Due i modelli prevalenti: quello “centralizzato” dove un unico sistema collettivo associa e coordina tutte le imprese nazionali, e quello che potremmo definire “multiplo”, dove più sistemi collettivi si dividono il mercato nazionale svolgendo più o meno le stesse funzioni. 

Tranne rari casi, i sistemi sono ad adesione volontaria. Le imprese decidono di affidare i propri obblighi rispetto ai rifiuti a un sistema collettivo in quanto questa soluzione è economica, funzionale e le libera da responsabilità dirette. La delega di responsabilità avviene attraverso l’iscrizione dell’impresa e il versamento di un fee che corrisponde alla quantità e tipologia di rifiuti generati. Se i sistemi sono multipli, l’impresa può decidere sulla base del miglior offerente.

A oggi lo scenario presenta una tale quantità di varianti da disorientare la stessa Commissione europea. 

Per gli oli minerali si sono creati sistemi collettivi in Spagna, Portogallo, Italia, Finlandia e Grecia. Negli altri paesi europei la gestione avviene secondo formule di libero mercato più o meno organizzate: in Germania la raccolta è effettuata dalle imprese che rigenerano gli oli, mentre in Francia l’Agenzia ambientale governativa monitora i dati di tutti gli operatori.

Per i Raee ci sono Sistemi collettivi in Francia, Italia, Gran Bretagna, Irlanda, Belgio e Olanda. In Belgio il sistema è “centralizzato”, mentre i sistemi “multipli” di Italia e Gran Bretagna presentano rispettivamente 17 e 41 sistemi autorizzati.

La maggiore concentrazione e varietà si trova nei sistemi per la gestione dei rifiuti di imballaggio, il cui sviluppo nei paesi membri è stato favorito dalle indicazioni contenute nella Direttiva (94/62/CE). Attualmente nei 28 paesi i sistemi attivi, in riferimento ai soli rifiuti urbani, risultano essere 161 (e lo scenario è in continuo movimento). Si va da situazioni tendenzialmente “centralizzate”, come Francia, Italia, Spagna o Repubblica Ceca, fino a paesi dove la molteplicità dei sistemi è arrivata a numeri sconcertanti: Germania 17, Regno Unito 22, Lituania 40.

La trasformazione continua è anche dovuta a ripensamenti o contenziosi internazionali rispetto al modello adottato. I paesi a sistema “centralizzato” rivendicano la validità della loro scelta, in grado di armonizzare il comportamento di tutti gli operatori nazionali, ma vengono talvolta accusati di scarsa flessibilità o addirittura di abuso di posizione dominante. I paesi a sistema “multiplo” si presentano come espressione del libero mercato, ma scontano a volte una frammentarietà delle azioni che rende volatili prezzi e fee, nonché qualche difficoltà nella tracciabilità e continuità dei flussi di materiale.

Il dibattito sul contrasto tra i due modelli è molto acceso, anche se appare evidente che la svolta in atto, combinata con i nuovi orientamenti e obiettivi dell’economia circolare, richiede una riformulazione che giunga a un risultato contemporaneamente flessibile e sotto controllo. I sistemi collettivi non possono rinunciare alla loro mission di salvaguardia delle risorse ambientali, e pertanto necessitano di un coordinamento che vigili sullo svolgimento di tutte le operazioni necessarie, anche quando queste fossero, per così dire, “antieconomiche”. D’altro canto essi non possono irrigidirsi in un sistema di potere, a vocazione autoconservativa, incapace di seguire le rapidissime evoluzioni della tecnologia e dei nuovi mercati. I sistemi “multipli”, benché di libero mercato, dovrebbero essere esenti da logiche di profitto (il vantaggio dovrebbe andare alle imprese associate e mai al sistema) e questo richiede l’adozione volontaria di regole e principi che vanno al di là della compliance normativa.

Quale che sia l’evoluzione dei sistemi collettivi, resta il fatto che le filiere che ne sono dotate mostrano oggi rendimenti di recupero e riciclo, nonché performance economiche e occupazionali, senza confronto rispetto a quelle che ne sono prive. 

La formula funziona, e questo particolare dispositivo pubblico/privato apre anche una prospettiva politica importante: le aree della tutela ambientale che raggiungono l’autonomia economica e non comportano costi per la collettività, potrebbero essere trasferite alla gestione privata, istituendo una “nuova delega” alle imprese, intese come dirette protagoniste dell’economia ma anche dei patti sociali e delle formule di civiltà che dall’economia derivano.

 

Altre prospettive 

E cosa succede per le frazioni che finora non hanno trovato un sistema collettivo di riferimento? 

In questi anni sono numerose le filiere che stanno attraversando la soglia che separa i rifiuti dalla materia rinnovabile. In particolare, due grandi flussi sono in procinto di varcare il fossato: i rifiuti di materia organica e i rifiuti da costruzione e demolizione.

È evidente che in questi casi non possono essere ricalcati gli stessi modelli utilizzati per gli imballaggi o per gli pneumatici fuori uso. 

La filiera dell’organico presenta una frammentarietà di soggetti che impedisce l’applicazione meccanica di un contributo a “tutti” coloro che immettono al consumo i propri prodotti, intendendo tra questi anche il piccolo coltivatore di ortaggi. Occorre intercettare i flussi dove diventano consistenti, probabilmente presso la produzione industriale e la grande distribuzione. L’importante è valorizzare questa materia, potenzialmente ricchissima, restituendola al suolo o rendendola disponibile per la produzione industriale dei nuovi biomateriali.

Situazione simile per i rifiuti da costruzione/demolizione. Anche qui non è pensabile applicare alla lettera il principio di responsabilità estesa del produttore. Un esempio: quando verrà trasformato in rifiuto l’Empire State Building, costruito tra il 1930 e il 1931, non si potrà rintracciare nessuno dei “produttori iniziali”. Quindi sarà più ragionevole fare riferimento, anziché al produttore del bene, al “produttore iniziale del rifiuto” (anche se non è sempre facile individuare in modo univoco tale figura).

In pratica vanno create nuove figure e nuove relazioni di responsabilità.

 

Empire State Building. Foto di Aniruddhags

 

Ma questo non è un grande problema: in un confronto con gli operatori di ciascun settore è possibile trovare il bandolo della matassa. Rallentamenti e contenziosi avvengono quando si discute di denaro da spendere e soprattutto di chi lo deve spendere. Ma la svolta economica di cui si parlava all’inizio può dare una sterzata anche a queste inerzie. 

Oggi non si crea un sistema collettivo perché qualcuno si faccia carico di un costo a nome della collettività: lo si fa perché il sistema può ridistribuire già – o comunque tende a ridistribuire – vantaggi economici a tutti i partecipanti alla filiera. Si attinge alle nuove miniere del pianeta operando in uno scenario che all’orizzonte contempla anche un giusto profitto.

 

In questo numero di Materia Rinnovabile

  • In questo Focus Rifiuti Paola Ficco evidenzia alcune delle contraddizioni normative che derivano dalla nozione di “disfarsi”, con particolare riferimento al problema del riutilizzo.
  • Quella dei sistemi collettivi è una soluzione che contribuisce alla “democrazia ambientale”, come segnala Pasquale Fimiani in questo Focus Rifiuti, in quanto il diritto di partecipazione ai processi decisionali – che è misura della democrazia – si realizza in questo caso in una sorta di “coamministrazione” pubblico/privato.
  • Paolo Tomasi in questo numero di Materia Rinnovabile racconta le ragioni di un graduale cambiamento del modello di funzionamento da parte del Coou, il Consorzio italiano per gli oli minerali.
  • In questo Focus Rifiuti Danilo Bonato, intervistato da Antonio Cianciullo, offre un interessante approfondimento sulla raccolta e il recupero dei Raee in Europa.
  • Giovanni Corbetta, in questo Focus Rifiuti, propone una riflessione sui criteri etici che potrebbero essere adottati dai sistemi collettivi per assolvere in modo equilibrato alla loro doppia funzione pubblica e privata.
  • Aldo Femia, in questo Focus Rifiuti, documenta alcuni dati di valorizzazione dei flussi di materia da parte dei compliance scheme europei.