Incrociare le filiere. Produttive. Questo potrebbe essere il punto cardine dell’economia circolare nel quale vedere la differenza più netta tra ventesimo e ventunesimo secolo, per quanto riguarda le risorse impiegate nei processi produttivi. Durante tutto il secolo scorso, infatti, i processi manifatturieri furono sostenuti dalle scoperte di nuovi materiali. Nel 1953 il premio Nobel Giulio Natta mise a punto assieme a Karl Ziegler una serie di catalizzatori per realizzare polimeri isotattici, prodotti che aprirono nuove e dirompenti prospettive nel campo delle plastiche; mentre nel 1954 entrò in funzione in Russia la prima centrale per la produzione elettrica che addirittura gestiva la materia nucleare. E gli esempi potrebbero essere centinaia. Sono state proprio queste scoperte su materie prime ed energia a guidare gran parte delle economie produttive del Novecento, contando sul presupposto che l’ambiente – inteso sia come risorsa di materie prime, sia come luogo finale di destinazione – potesse essere infinito. Una logica errata che, se da una parte ci ha dato un bagaglio di conoscenze unico, per quantità e qualità, nella storia del genere umano, dall’altra ci ha reso consapevoli e capaci, forse, di cambiare strada. Tutto ciò passando da uno sviluppo lineare che necessita di una crescita esponenziale, a uno per l’appunto circolare, che ispirandosi all’ecosistema terrestre utilizza più volte le risorse, conservandone le qualità nel tempo, per le generazioni future.
E non è fantascienza, ma una realtà che ha già messo radici anche grazie a un piccolo protagonista. Un seme, ossia uno degli alimenti più umili che si conosca la cui coltivazione è nota da almeno 5.000 anni: il fagiolo.
Il fagiolo, che se seccato ha la stessa quantità di proteine della carne, dopo aver sfamato e salvato dalle carestie – grazie alla semplicità di coltivazione, alla possibilità di conservazione e al basso costo – molte generazioni degli strati più umili della popolazione, oggi è diventato l’attore principale di una storia emblematica dell’economia circolare. Quella dello “scarto” che diventa materia prima seconda nella stessa filiera produttiva dove è stato generato.
Un rifiuto in crisi d’identità, potremmo dire, che si oppone all’essere messo alla porta dello stabilimento dove è stato prodotto. E non accade in un paese in via di sviluppo, ma in Italia.
Siamo a Molvena nel vicentino, nello stabilimento del Gruppo Pedon – azienda da 100 milioni di euro di fatturato annuo, con 600 dipendenti – che ha il 50% del mercato dei legumi, cereali e semi lungo lo stivale. E che ha sviluppato il progetto “Save the Waste”. “Il nostro fagiolo che arriva in Veneto, con il treno, è già un legume speciale, visto che è coltivato all’interno di programmi per lo sviluppo e la salvaguardia economici degli agricoltori, non è Ogm e proviene da sementi selezionate. Sviluppiamo delle filiere etiche, come quella, per esempio, in Etiopia, dove riconosciamo un premio supplementare al prezzo di mercato attraverso delle organizzazioni no profit” ci dice Luca Zocca, marketing manager di Pedon. “In questa maniera aiutiamo le comunità locali, di cui fanno parte i nostri fornitori che sono riuniti in cinque cooperative, con servizi legati alla promozione sociale, come per esempio l’istruzione.”
Un fagiolo “cresciuto” in un simile contesto, quindi, è quasi naturalmente votato a nuove forme d’economia, come, appunto, quella circolare. E l’occasione è quella di diventare uno scarto, ma attenzione, non un rifiuto. Varcata la soglia dello stabilimento, infatti, ogni singolo legume deve passare un esame d’idoneità e quelli scartati prendevano, fino a poco tempo fa, un’altra strada. Quella dell’alimentazione animale, separandosi così definitivamente da quelli destinati alle nostre cucine. Oggi, invece, il fagiolo scartato diventa un pezzo della filiera, trasformandosi in un imballaggio indispensabile alla commercializzazione dei suoi simili che, al contrario di lui, hanno passato la selezione.
E qui arriva l’idea dell’azienda che ha deciso d’avventurarsi in una zona di confine, nella quale si sperimentano metodologie e tecniche produttive su filiere esistenti senza danneggiarne la capacità di produrre valore: la zona dell’economia circolare, quella vera, fatta di risultati concreti e verificabili. Ed ecco allora che il fagiolo “non scelto” esce dallo stabilimento per trasferirsi in un’azienda vicina, la cartiera Favini, dove è ormai un’abitudine pensare a come “contaminare”, in senso positivo, la produzione della carta con altri materiali, con un’assoluta preminenza per gli scarti di altre filiere produttive.
E il fagiolo in questo caso diventa da comprimario a protagonista, perché è la sua presenza per un 20% del totale a fare la differenza nella carta che diventerà a breve la scatola nella quale mettere gli altri legumi. “Prima di tutto sgombriamo il campo da tutto quello che può essere un equivoco” ci dice Achille Monegato, responsabile della Ricerca e Sviluppo Favini. “La carta è un materiale composto che non è fatto solo dalla fibra di cellulosa, ma anche da altro. La fibra è indispensabile, ma da sola non può fare la carta. Non esiste al mondo una carta fatta al 100% di cellulosa.” Ecco quindi che la fibra di cellulosa ha bisogno di alleati per fare la carta e in questa ricerca hanno lavorato assieme Favini e Pedon, per creare Crush Fagiolo. La prima azienda possiede il know-how, ormai ventennale, per decidere, in base ai principi dell’economia circolare che coniugano scarti che diventano materie prime seconde, processi e materie prime, cosa e come mettere assieme alla fibra di cellulosa. La seconda possiede lo “scarto” e la volontà d’incrementare attraverso un utilizzo inedito la sostenibilità della propria filiera. Ecco quindi cosa c’è alla base del salire alla ribalta del nostro fagiolo che ha, in questo inedito contesto delle qualità nascoste.
Qualità nascoste
I legumi, infatti sono differenti dai cereali visto che contengono meno amido e ci sono le proteine, sostanze che non sono, o lo sono parzialmente, solubili in acqua, hanno a disposizione dei legami a idrogeno e quindi possono formare con la cellulosa legami di tipo chimico ed elettrochimico, essenziali per dare “forma” alla carta. E il nostro amico fagiolo, essendo un legume, queste qualità le possiede tutte e può essere utilizzato come ingrediente della ricetta della carta. Ma a condizione che i materiali siano della giusta misura. E qui entra ancora una volta in gioco la ricerca applicata all’economia circolare. In precedenza, infatti, nei processi produttivi si sceglievano gli ingredienti tra quelli più adatti come costituzione, ma oggi questa filosofia nel contesto dell’economia circolare non può più funzionare. La materia prima seconda derivata dai rifiuti o dagli scarti, infatti, può non essere adatta all’utilizzo in filiera così come esce dal processo produttivo originario nonché da quello di riciclo; per questo motivo è necessario aggiungere delle lavorazioni intermedie nella filiera stessa che questo materiale accoglie.
Potrebbe sembrare un dettaglio, e invece rappresenta una barriera importante per la diffusione di queste lavorazioni, ma anche un vantaggio competitivo per le aziende che questa parte di processo l’hanno messa a punto e la sanno far funzionare. Ed è un know-how prezioso, che fa bene all’ambiente, ma anche alla nostra economia. E che è rappresentato bene dal nostro amico fagiolo. Infatti, se si realizza una normale carta per fotocopie, quella con una grammatura da 80 grammi, bisogna tenere conto che ha uno spessore di 100 micron, ossia 0,1 mm: per questa ragione i materiali utilizzati devono essere di dimensioni inferiori, pena la non legatura con il supporto. Ossia possono rimanere un elemento estraneo, dando così al prodotto finale una minore funzionalità, oltre che un peggiore aspetto. E non è un problema da poco al quale in passato è dovuta l’immagine negativa che hanno avuto i primi prodotti che utilizzavano materie prime seconde, alla quale deve essere affiancata anche la modifica della filiera. Favini possiede questo pezzo aggiuntivo di filiera che è un processo di micronizzazione, brevettato, che gli consente di trattare materiali “diversi” come il fagiolo, mentre Pedon era a conoscenza del fatto che la cartiera era in grado di accogliere il fagiolo e inserirlo in maniera organica e concreta nel processo produttivo per ottenere il prodotto desiderato. “Una volta capito ciò mettere assieme le fibre di cellulosa con altri materiali vegetali contenenti amidi, proteine e polisaccaridi poco solubili in acqua diventa relativamente semplice” prosegue Monegato. “Il caso di Pedon è stato molto interessante e ci ha consentito di fare un’esperienza inedita anche perché nessuno aveva mai utilizzato questo materiale per ottenere la carta.”
Innovazione inedita
Ed è interessante anche leggere questa esperienza sotto al profilo dell’innovazione di prodotto. Non deve sfuggire, infatti, che la nuova confezione dei legumi di Pedon nasce in due stabilimenti – vicini geograficamente e la cosa ha una sua importanza – confrontando le due filiere e mettendo in comune il know-how posseduto dalle due aziende. Innovazione, quindi, che deriva dalla netta contiguità dei processi produttivi, recependone le esigenze, senza però trascurare il fatto che queste devono funzionare e produrre valore quanto prima sia durante, sia dopo l’innesto degli elementi d’economia circolare. E deve essere una delle regole questo livello d’integrazione se si vuole partire ora, come le crisi climatico-ambientale e sociale, impongono.
Inoltre, su richiesta di Pedon, il cartoncino ottenuto dal fagiolo è stato certificato per gli alimenti sia in Europa sia negli Usa. Ed è la prima carta per imballaggi, che contiene scarti di lavorazione industriale, a esserlo. Un primato che – oltre ad avere un certo fascino – ha anche due aspetti qualificanti. Grazie a questa certificazione i fagioli, quelli destinati alle tavole, non necessitano d’essere imbustati prima del confezionamento finale. Risultato: un rifiuto in meno e risparmio economico per l’azienda. E non è finita. La cellulosa vergine è rigorosamente certificata Fsc (Forest Stewardship Council), la finestrella trasparente che consente di vedere il prodotto è in Pla – una plastica d’origine vegetale derivata dal mais – e per la stampa, effettuata dalla cartotecnica Lucaprint, sono stati utilizzati inchiostri d’origine vegetale. La scatola, quindi, è totalmente riciclabile nella filiera di carta e cartone. Prova ne è che gli scarti di produzione della carta Crush Fagiolo – il 10% del totale – rientrano subito nel ciclo di produzione di Favini. E ciliegina, anzi è il caso di dirlo, fagiolino sulla torta è il fatto che tutti e tre gli stabilimenti usano al 100% fonti d’energia rinnovabile. E il clima ringrazia il fagiolo visto che, solo nella fase di realizzazione del packaging, l’impiego di fibra di cellulosa vergine è ridotto del 15% e le emissioni di CO2 del 20%.
Non si può trascurare, però, il conto economico. Ossia quanto costi mandare il nostro fagiolo in cartiera per migliorare l’ambiente.
Dal punto di vista strettamente economico il confezionamento dei legumi così fatto è ancora lievemente più caro di quello tradizionale. Parliamo di qualche centesimo di euro per ogni contenitore, cosa però che se viene moltiplicata per centinaia di migliaia di contenitori possiede un certo impatto economico. “Per noi è un costo i cui vantaggi vengono riconosciuti, specialmente all’estero, dai nostri clienti che apprezzano i contenuti legati alla sostenibilità che possiede questo packaging” conclude Luca Zocca. “E non siamo i soli a dirlo: una serie di ricerche di mercato hanno verificato nei fatti l’esistenza di consumatori che in tutto il mondo apprezzano contenuti etici e sostenibili. Anche a costo di qualche sovrapprezzo in più.”
C’è da dire che l’utilizzo di questi contenitori, però, è ancora basso e a Pedon contano di ridurre la differenza di costo tra queste confezioni e quelle tradizionali grazie alle economie di scala introdotte da una produzione più ampia. E se l’inizio della corsa del nostro fagiolo nell’arena dell’economia circolare è stato questo, è anche lecito pensare che il traguardo della parità di costo sia più vicino di quanto possiamo immaginare.
Progetto “Save the Waste”, www.savethewaste.com
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