Ogni anno, secondo i calcoli della Commissione europea, ciascuno dei 28 paesi membri produce in media una montagna di circa 173 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzioni e demolizioni (C&D – Construction and Demolition). Dall’inestricabile e bizzarro labirinto di dati in mano alla Commissione, tra paesi che riportano cifre palesemente sovrastimate – come Malta e Finlandia – e altri che riportano quantità trascurabili – come Slovenia, Svezia e Irlanda – e considerando i differenti e a volte inspiegabili criteri di calcolo scelti dalle singole nazioni, emerge che cinque Stati membri (Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna) rappresenterebbero da soli circa l’80% dei rifiuti totali C&D. Più precisamente, i principali produttori di inerti risultano essere la Francia con più di 231 milioni di tonnellate, la Germania con 201 milioni e il Regno Unito con circa 100 milioni (dati 2012). Questi tre paesi sono anche discreti campioni di riciclo, rispettivamente a quota 63-90-87%, insieme all’Irlanda (96%), ai Paesi Bassi (95%) e alla Danimarca (86%).
Le stime ufficiali, raccolte anche da Eurostat, non convincono però gli operatori del settore, che da più parti denunciano i palesi buchi di questo sistema di raccolta di informazioni. Soprattutto per quanto riguarda le percentuali di riciclo: la realtà sarebbe ben lontana dal virtuosissimo quadro tracciato dalle stime ufficiali inviate dai singoli Stati alla Ue.
E ciò vale anche per l’Italia: a fronte di un ipotetico 70% di riciclo (dati Ispra, 2015), secondo gli addetti, invece, non si supererebbe un misero 10%. Percentuale confermata anche dall’Osservatorio Recycle di Legambiente e dall’Associazione nazionale produttori aggregati riciclati (Anpar).
Non vi sono invece discordanze sul fatto che in Europa questa tipologia di scarti rappresenti quantitativamente la fetta più grande della torta dei rifiuti generati, equivalente a poco meno della metà del totale. In Italia, per esempio, coprono circa il 40% (Ispra, 2015) della produzione annuale di rifiuti speciali, in gran parte non pericolosi. Con un calo di due punti percentuali rispetto all’anno precedente (la crisi economica s’è fatta sentire anche qui), nel 2013 se ne sono generati (compreso il terreno derivante dalle operazioni di bonifica) circa 49 milioni di tonnellate. Declinando il dato su macro aree territoriali, al Nord se ne sarebbero prodotte quasi 32 milioni di tonnellate, al Centro più di 8,5 milioni, al Sud circa 8,2 milioni di tonnellate.
Su un altro punto non ci sono dubbi in Europa: nella variopinta famiglia dei rifiuti, quelli da costruzione e demolizione sono sempre stati considerati figli di un dio minore. Sistematicamente inghiottiti nella logica dell’economia lineare, per loro è aperto solo il vicolo cieco delle discariche, che più di tutti hanno contribuito a saturare. Trascurando così le enormi potenzialità di un materiale che può sostituire facilmente la materia prima vergine, soprattutto per gli usi meno nobili quali la realizzazione di sottofondi e sovrastrutture stradali e per capannoni industriali, piazzali, recupero ambientale (ossia per la restituzione di aree degradate a usi produttivi o sociali attraverso rimodellamenti morfologici) e così via. Peraltro in questo caso il recupero di materia non risente della “concorrenza” del recupero di energia, che per altre tipologie di scarti con alto potere calorifico è invece forte, come nel caso della plastica, e incentivato dagli stessi interventi pubblici.
Da un punto di vista chimico-fisico la composizione dei rifiuti da C&D è particolarmente variabile e diversificata in funzione del livello di sviluppo socioeconomico raggiunto nei luoghi di produzione, del materiale vergine presente in loco, delle esigenze abitative. In sintesi comprendono calcestruzzo, cemento e malte varie, conglomerati bituminosi, blocchi di murature e mattoni, elementi lapidei, terra, legname, metalli, plastica, gesso e altri materiali misti.
Ai fini del recupero però si possono distinguere in due grandi categorie: calcestruzzo e macerie. Tra le due il calcestruzzo è il tipo di aggregato di maggior valore, quindi più appetibile per la sua valorizzazione post-consumo, poiché costituito principalmente dalla malta cementizia e dagli inerti prelevati da cave, materiali quindi previamente selezionati. Le macerie, invece, di solito scontano il fatto di essere troppo eterogenee, quindi più complesse da gestire nelle attività di selezione, trattamento e recupero. Optare per la selezione a monte è quindi la strada più facile per il recupero.
Come è abbastanza intuitivo, è dalle demolizioni che si origina il maggior flusso di rifiuti C&D: quelli prodotti in fase di demolizione sono 1.000-2.000 kg/m² pari al 93% della produzione complessiva, 50-100 kg/m² sono quelli prodotti durante la manutenzione (4,6%) e 25-50 kg/m² quelli in fase di costruzione, pari al 2,3%. In termini di peso, dai dati della Fiec (Federazione dell’industria europea delle costruzioni) circa il 53% proviene dalle microdemolizioni residenziali, il 39% da quelle non residenziali, l’8% dalle demolizioni di interi edifici. Questo significa che gli interventi di demolizioni diffusi e di piccola scala, attuati con tecniche selettive e chirurgiche, costituiscono una fonte inesauribile di materiali da riciclare: solo in Italia, più di 40 milioni di tonnellate.
La demolizione selettiva è tuttora una pratica poco promossa in Europa, sebbene – nel caso sia impiegata per ristrutturare e riqualificare il patrimonio edilizio esistente – rappresenti uno dei passi cruciali nella lotta ai cambiamenti climatici, ambito in cui l’Italia ha assunto obblighi ufficiali in occasione della recente Cop21 di Parigi (su scala Ue la Roadmap ci impone un taglio delle emissioni dell’80% entro il 2050). Oggi più di un quarto dei consumi finali sono dovuti al comparto residenziale che, a differenza di settori come quello industriale o dei trasporti, non ha visto finora sostanziali cambiamenti. Nel nostro paese si stimano in 18 milioni gli interventi di deep renovation, riqualificazioni radicali, da eseguire su interi edifici e che dovrebbero abbatterne i consumi energetici di oltre il 50% in modo permanente. Molti Stati membri stanno già mettendo in campo nuove iniziative sia sul fronte del risparmio energetico sia sulla bioedilizia e rigenerazione urbana. Su tutti Regno Unito e Germania, quest’ultima con un piano di rinnovo di 20 milioni di abitazioni da portare a termine in 20 anni. Mentre l’Italia si muove ancora lenta e a geometria variabile, i tedeschi hanno, infatti, approntato un’efficace politica di transizione finalizzata all’obiettivo di raggiungere una neutralità energetica entro il 2050, attraverso una serie di iniziative tra cui un raddoppio dell’attuale tasso di deep retrofit degli edifici esistenti (dal 2 al 4% annuo).
Ed è soprattutto la Ue che prova faticosamente a spingere sull’acceleratore del riciclo fissando al 70% con la direttiva 2008/98 la quota di recupero dei materiali inerti da raggiungere entro il 2020. Secondo i calcoli della Commissione, se nove paesi avrebbero già raggiunto il target (Austria, Belgio, Estonia, Germania, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi), per altri nove – tra cui l’Italia – ci si starebbe lentamente arrivando, mentre per i restanti dieci la meta sarebbe lontanissima.
Ritardi e difficoltà che stanno assillando molte nazioni. In Italia, per esempio, si sono rivelati abbastanza goffi i tentativi di incentivare il riciclo in linea con i dettami dell’end of waste. Come dimostra il caso delle “terre e rocce da scavo”, oggetto di continui e contradditori rimaneggiamenti normativi, che hanno solo contribuito ad alimentare confusione e incertezze, con risvolti spesso paradossali.
Tra gli ostacoli che in generale hanno inficiato il decollo del riciclo in questo settore, oltre alla farraginosità normativa, va ricordata la mancanza di pianificazione economica e politica, di coraggio imprenditoriale e la carenza sistemica dell’apparato dei controlli. E, soprattutto, il fatto che il settore edile ha potuto godere (e gode ancora oggi) di prezzi bassissimi per l’accesso alle materie prime-vergini (con royalties davvero irrisorie pagate alle Regioni), rendendo poco interessante investire sul riciclo degli scarti. Non è un caso se oggi arrivano in Italia rifiuti inerti prodotti all’estero da destinare alla cave italiane attive e inattive per interventi di ricomposizione ambientale.
Lampante il caso della Regione Lombardia che ha addirittura firmato un protocollo con la Svizzera in cui quest’ultima spalanca le frontiere alla sabbia prelevata in Italia, mentre la Regione facilita l’ingresso nel proprio territorio di inerti provenienti dalla Svizzera destinati soprattutto a riempiere le cave aperte. Così come i bassi costi per i conferimenti in discarica a livello Ue hanno inficiato usi alternativi. I paesi Ue che applicano una tassa sui rifiuti inerti sono solo sette, e il costo per lo smaltimento è inferiore a quello dei rifiuti urbani in tutti gli Stati, a eccezione della Danimarca. In Italia il costo per lo smaltimento dei rifiuti inerti è pari a 10 euro a tonnellata, mentre la media europea è di circa 15. Sta di fatto che due degli Stati membri con le tasse più alte per lo smaltimento in discarica degli inerti, Danimarca e Paesi Bassi, sono anche quelli con le percentuali più alte di riciclo (Fondazione per lo sviluppo sostenibile, 2105).
Il fronte di chi guarda con grande interesse a questo tipo di scarto si sta comunque allargando. Su tutti l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che durante l’audizione tenuta al Senato lo scorso 23 febbraio sul pacchetto di misure presentate dalla Commissione europea in materia di economia circolare, ha proposto una serie di incentivi fiscali e semplificazioni per l’acquisto di materiali edili riciclati, premialità per la messa a punto di tecniche innovative per la demolizione selettiva e agevolazioni per l’utilizzo del Bim (Building information modeling) nel monitorare l’intero ciclo di vita delle costruzioni.
La stessa Ance ha pure ammesso che lo scarso ricorso in Italia del recupero nel settore dei rifiuti da demolizione va collegato ai bassi costi delle materie prime, alla mancanza di un’offerta diffusa sul territorio e a una persistente diffidenza da parte degli operatori del settore sui possibili utilizzi dei materiali riciclati. Una sintesi praticamente perfetta.
Secondo Rapporto dell’Osservatorio Recycle di Legambiente, Recycle. La sfida nel settore delle costruzioni, www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossier_recycle_2016.pdf
Associazione nazionale produttori aggregati riciclati, www.anpar.org
Federazione dell’industria europea delle costruzioni, www.fiec.eu
Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti, tinyurl.com/ja4bwqd