David Zilber
Sprechiamo un terzo del cibo che produciamo e questo anche perché ci dimentichiamo da dove proviene e qual è il suo valore reale in termini ambientali. Al Noma di Copenaghen, secondo ristorante migliore al mondo nella classifica “The World’s 50 Best Restaurants” del 2019, si utilizza la fermentazione per riscoprire il valore del tempo, oltre che del cibo, in un mondo che ricerca il breve termine e l’immediatezza.
Abbiamo incontrato David Zilber, responsabile del Fermentation Lab del ristorante e autore del libro The Noma Guide to Fermentation (Artisan, 2018) assieme a René Redzepi, head chef e proprietario del Noma.
La fermentazione è una tecnica antichissima che sta vivendo un momento importante di riscoperta: cosa significa fermentare nel ventunesimo secolo?
“Credo si possa rispondere a questa domanda in due modi differenti: concretamente e filosoficamente. Nel primo caso la fermentazione rappresenta semplicemente una modalità di consumo che va ben oltre il suo scopo primario di conservazione. Vista da questa prospettiva, è uno strumento efficace per aumentare il valore di un prodotto, la cui impronta ecologica rimane però enorme. Questo rappresenta la maggioranza dell’industria della fermentazione, capitanata dalle compagnie multimiliardarie che gestiscono la produzione di alcolici.
Dal punto di vista filosofico invece, che è l’approccio che utilizziamo al Noma, fermentare è un modo di riconnettersi alle ricette e alle tecniche della cucina tradizionale che era legata indissolubilmente ai flussi, ai ritmi e alle limitazioni imposte dalla natura. Allungando la durata di conservazione del cibo la fermentazione ha dato agli esseri umani l’opportunità di prosperare: trovandosi più sicuri dal punto di vista alimentare, il rischio di patire la fame per lunghi periodi diminuì e così anche la necessità di migrare a seconda della stagione. Partendo da questa riflessione, fermentare nel ventunesimo secolo è quindi un modo per riconnettersi con un passato largamente dimenticato e per lungo tempo finito lontano dai riflettori. Non di proposito ma probabilmente come errore di default. Succede quando si smette di capire come sono fatte le cose e nel frattempo un’azienda cresce così tanto da diventare un conglomerato multinazionale che produce tutto quello che serve, dal cibo ai vestiti. Quando ciò accade non si ha più davvero bisogno di sapere come è stato prodotto il cibo che mangiamo.”
Lavorare con funghi, muffe, bucce di frutta e verdura; scoprire nuovi sapori da queste materie spesso considerate prodotti di scarto e “accettate” solo su alcuni alimenti, come nel caso dei formaggi. Come sta cambiando la percezione verso questi prodotti e che ruolo gioca il Noma in questa transizione?
“Perché la muffa va bene solo se copre un pezzo di formaggio? Nessuno guarda un pezzo di brie in un piatto di formaggi e pensa che sia strano. Al Noma, durante la stagione vegetariana (il Noma cambia menù tre volte l’anno utilizzando temi sempre diversi, ndr) abbiamo sperimentato molto, arrivando a servire tre portate di fila con la stessa muffa fatta fermentare su tre alimenti differenti. Il successo del libro (The Noma Guide to Fermentation) ha portato il Noma sotto i riflettori per quanto riguarda la fermentazione a livello di fine dining, ma prima lavoravamo e sperimentavamo dietro le quinte e come noi altri ristoranti, per esempio il Mugaritz. Per quanto riguarda la percezione di disgusto associata alla fermentazione, ai funghi e alle muffe, non è altro che disinformazione. Più persone si avvicinano, iniziano a conoscere, ad assaggiare e meno spaventoso diventa. Ruota tutto intorno all'educazione e alla diffusione di tecniche e dati.”
Fermentare implica aspettare. Quando accade a livello di fine dining, come cambia nella cucina la percezione dell’attesa?
“Arriva piano piano, con la pratica e l’esperienza. Non è qualcosa che capisci immediatamente. All’inizio segui le istruzioni, aspetti, aspetti ancora, vedendo le varie fasi come un processo a cui non hai accesso. Tuttavia, più fai pratica e più comprendi che questo è dettato dal fatto che la fermentazione riguarda una parte del mondo naturale che opera in una scala fondamentalmente differente da quella umana. Ora, noi siamo sempre molto distratti a pensare alle nostre stesse trappole, alle nostre performance e spesso ci dimentichiamo che esiste una versione scalare della nostra realtà, dove milioni di organismi invisibili a occhio nudo operano in una scala temporale che è inversa al nostro modo di concepire il tempo che passa. Una volta che ti scontri con questo, cominci a crescere realizzando che effettivamente non sei tu ad avere il controllo. Puoi impostare le condizioni, creare un ambiente fertile ma sarai sempre un pastore, non un maestro. In una cucina professionale i tempi sono particolarmente rapidi e si può sempre aumentare la velocità di cucinare proporzionalmente all’urgenza di fare uscire un piatto. Con i microbi questa cosa non si può fare. La fermentazione richiede una quantità estrema di organizzazione, pazienza, pianificazione e soprattutto una rassegnazione rispetto al desiderio di controllo sui ritmi naturali. Quando si conservava il cibo per la propria sopravvivenza infatti si investiva molto tempo in questa tecnica che opera in una scala temporale ben oltre l’immediato, cifra caratteristica del nostro tempo.”
Il fatto che sempre più chef parlino dei danni ambientali che le scelte relative al cibo comportano sta influenzando milioni di consumatori verso opzioni più sostenibili ed eque. Pensi che sia un trend o stiamo iniziando a comprendere l’urgenza di cambiare per sopravvivere?
“Vorrei partire dicendo che adottare scelte individuali che apportano benefici non equivale necessariamente al raggiungimento di risultati positivi su larga scala e nelle tempistiche richieste. Solo perché esiste questa idea binaria di cambiamento positivo o negativo (aumento o diminuzione delle quote di mercato) non significa che il mondo intero stia cambiando in un modo o nell’altro. Si può sicuramente tracciare una tendenza positiva che ispira speranza ma quando sentiamo parlare di aumento della consapevolezza del consumatore riguardo la provenienza del cibo non dobbiamo farci trarre in inganno e rischiare di scadere nell'autoreferenzialità. Ciò rappresenta una piccola frazione della fotografia globale e il fatto che riconosciamo un trend in certe aree del pianeta in nessun modo è rappresentativo della torta nel suo intero, soprattutto se la parte più grande della torta sta crescendo nella domanda di produzione e consumo. Il disfunzionamento del nostro sistema alimentare richiede un intervento più grande, a livello di governance e policy making. Un sistema alimentare circolare deve partire da una profonda analisi delle filiere di produzione e dall’educazione al cibo, accompagnando queste allo sviluppo di policies e partnerships. La costante perdita di terre fertili significa solo una cosa: migrazioni di massa. La trasformazione perciò dovrà essere radicale: il modello agricolo convenzionale (quello industriale) ha come unico fine massimizzare la produttività e i profitti nel breve termine. Per agevolare la transizione verso un’agricoltura rigenerativa e organica, che solitamente causa una perdita di produttività nel breve termine e un prezzo più elevato sul mercato, sono necessari incentivi rapidi ed efficienti a sostegno degli agricoltori. È una questione spinosa all’interno della quale c’è questa divisione tra i migliori propositi delle persone e il costo del cibo che non può, ma dovrebbe, aumentare. Se ci fosse maggiore consapevolezza a livello internazionale potremmo iniziare a costruire un sistema alimentare più sicuro più diversificato e antifragile (si tratta di un neologismo inventato da Nassim Taleb che descrive ciò che non solo è capace di sopportare il caos, ma anche di migliorare sotto lo stress di agenti esterni, ndr).
Non possiamo più continuare a fare finta di niente perché gli eventi estremi stanno già causando perdite enormi nella produzione di cibo e questo comporterà aumenti forzati di prezzi e fluttuazioni sempre meno prevedibili. Il ruolo del trend in questa prospettiva è aumentare esponenzialmente la visibilità mediatica del tema, entrando nell’agenda politica e alimentando la speranza dei cittadini: solo così possiamo immaginare e costruire un sistema alternativo.”
Quali sono le maggiori sfide che dovremo affrontare riguardanti il sistema alimentare globale e per cosa dovremo lottare in maniera più decisa?
“La sfida più grande resta capire come comunicare il reale valore del cibo. Le esternalità della produzione alimentare sono spesso nascoste dal marketing e non sono mai veramente tassate: bisogna trovare un modo di renderle esplicite a tutti. Questo sistema è controllato da compagnie multimiliardarie che trattano la fonte primaria per la sopravvivenza dell’essere umano puramente come una stock commodity, ma sono i contadini ad alimentare le città e il mondo intero. Il fatto che ora la popolazione sia più numerosa in città che nelle aree rurali significa che ci stiamo rendendo più vulnerabili ed esposti a collassi sistemici. Se comprendessimo il valore del cibo in termini intergenerazionali, cosa significhi inquinare il suolo oggi per i bambini appena nati, sarebbe già un ottimo punto di partenza. Ciò non toglie, di nuovo, che il problema strutturale risiede nella visione a breve termine. A causa di questa tendiamo a sovrastimare il futuro vicino, sottostimando quello lontano. Un esempio lampante di ciò è la nostra enorme preoccupazione per un possibile collasso del welfare state (se e dove andremo in vacanza, se e quando otterremo le nostre pensioni) rispetto alla quasi inesistente preoccupazione per l’estinzione di massa. Poco tempo fa leggevo un articolo sui tumuli giganti che le termiti costruiscono, mantenendo complicatissime connessioni sotterranee. Nessuna singola termite capisce che sta costruendo uno dei capolavori architettonici più complessi esistenti in natura. Ciascuna esegue il proprio lavoro localmente con quello che ha intorno e l’organizzazione evolve piano piano da queste azioni individuali. Per molti versi il nostro sistema alimentare assomiglia a questo, basti pensare ai milioni di scambi internazionali quotidiani in cui prodotti di qualsiasi genere vengono spediti più volte attraverso gli oceani prima di finire nel piatto del consumatore, ignaro delle migliaia di azioni individuali che sono precedute. Gli esseri umani tuttavia operano su una scala completamente diversa rispetto alle termiti ed è per questo che mentre queste non rischiano di collassare, noi, non comprendendo la nostra interdipendenza reciproca, creiamo sempre più minacce alla stabilità del sistema. Perché qui non si tratta di salvare il pianeta, ma la specie umana.”
Tutte le immagini: credit David Zilber