Ottocento milioni al 2030. Non è un nuovo obiettivo della comunità internazionale in materia di clima o energia, ma la previsione dei posti di lavoro che saranno persi entro quella data. Causa di ciò sarà la tenaglia rappresentata dalla robotica e dall’intelligenza artificiale applicate ai processi produttivi di ogni tipo. Questo è ciò che emerge da una corposa ricerca di McKinsey uscita nel dicembre 2017 e che ha avuto un’ampia risonanza presso gli addetti ai lavori, ma una scarsa attenzione da parte dell’opinione pubblica. E non si tratta di un processo lineare, ma di un fenomeno multiforme, difficile da comprendere in profondità.
“Il 50% delle attività a livello globale potrebbe, in teoria essere automatizzata, usando le tecnologie odierne – si legge nel report di McKinsey – Ma solo il 5% può esserlo completamente.” Oggi però siamo a uno stadio intermedio e si osserva – afferma ancora il rapporto – che la penetrazione delle nuove tecnologie nei processi produttivi, che riguarda il 60% degli stessi è a diversi livelli. In alcuni, pochi, casi rende del tutto superfluo il lavoro umano, mentre nella maggioranza ne riduce la necessità, con il risultato di far aumentare la flessibilità necessaria per far fronte alle trasformazioni, con cambiamenti sostanziali sul luogo di lavoro e sulla sua somministrazione.
Si tratta di dinamiche che vanno al di la della fattibilità tecnica dell’automazione che non è l’unico fattore che ne influenzerà la velocità e l’estensione. Costi ridotti di sviluppo, obsolescenza dei processi produttivi, mutazioni delle filiere e anche qualità intrinseche di prodotti e servizi, sono tutti elementi che condizioneranno le dinamiche di penetrazione delle tecnologie con un’unica certezza: saranno adottate. Le analisi di McKinsey, infatti, prevedono un aumento della produttività globale tra lo 0,8 e 1,4% ogni anno grazie alle applicazioni delle tecnologie. Numeri rilevanti che nessuna impresa o nazione è disposta a trascurare. Una dinamica mai ignorata in duecento anni di storia industriale.
Salvezza circolare
In questo quadro l’economia circolare viene vista come “ancora di salvezza” per il lavoro, oltre che per l’ambiente, ma è una questione spesso inserita in un contesto privo dello scenario generale. Spesso, infatti, si considera l’economia circolare come un fenomeno lineare a sé stante che produce effetti positivi di carattere generale, inclusi quelli occupazionali. Ma prima di arrivare a conclusioni salvifiche è necessario analizzare maggiormente in dettaglio alcune componenti dell’economia circolare che sono l’energia, i flussi di materia, la manifattura, i servizi e il riciclo/riuso.
L’energia, anche se molto sottovalutata nella discussione sull’economia circolare è uno dei settori nel quale il paradigma sta cambiando sul serio: da fossili a rinnovabili. Il settore delle rinnovabili a livello mondiale si sta sviluppando grazie a una serie di caratteristiche. La prima è la maturità tecnologica, cosa che influisce sul prezzo. Lo scorso anno, durante un’asta in Cile aperta alle diverse tecnologie energetiche il fotovoltaico ha battuto il carbone esclusivamente sul fronte del prezzo, senza che fossero aggiunte valenze ambientali. Enel, in questo caso, ha vinto a 2,1 centesimi di dollari per kWh, contro i 3,6 offerti dall’industria del carbone, scendendo ancora di prezzo in Messico con 1,8 centesimi di dollari per kWh. Il secondo driver delle rinnovabili è il clima, con gli obblighi che dovrebbero derivarne e con l’Europa in pole position con obiettivi al 2030 rilevanti. La terza questione fondamentale è la stabilità geopolitica, e quindi di prezzo, che influisce pesantemente sull’economia: meglio produrre energia localmente. In questo quadro si è sviluppata la ricerca sul lavoro guidata da Mark Z. Jacobson dell’università di Stanford 100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries of the World che ha analizzato le potenzialità nella creazione di lavoro delle rinnovabili, con le tecnologie di oggi, in uno scenario che vede il 100% rinnovabile al 2050. I risultati sono chiari. Utilizzando i modelli messi a punto dai Nrel – i laboratori di ricerca pubblici statunitensi sulle rinnovabili – Jobs e Jedi che valutano l’occupazione e l’impatto dello sviluppo economico delle rinnovabili, Jacobson e il suo staff sono arrivati a determinare che lo scenario 100% rinnovabili al 2050 a livello globale produrrà 51,5 milioni di nuovi posti di lavoro stabili, con un incremento netto di 24,3 milioni visto che 27,2 milioni di occupati nelle fonti fossili perderanno il lavoro. Il tutto riducendo il costo dell’energia e l’intensità energetica di un 42,5% sugli utilizzi finali, con l’efficienza energetica.
Certo solo con l’energia saremmo ancora distanti dal pareggiare la fosca previsione di McKinsey, ma questa ricerca è un tassello nella dimostrazione che il “cambio di paradigma” può funzionare.
Le cose si complicano quando ragioniamo sui flussi di materia. Su alcuni, come i metalli, il sistema circolare funziona già ora, come l’acciaio e l’alluminio. Sotto il profilo occupazionale, invece, le prospettive sono meno rosee. In questi settori, che sono già a bassa intensità di lavoro, l’arrivo di Industria 4.0 sta espellendo manodopera in maniera massiccia, indipendentemente dal fatto che i processi appartengano o meno all’economia circolare. Il nuovo stabilimento dell’impresa siderurgica austriaca Voestalpine nella cittadina di Leoben a sudest di Vienna impiega solo quattordici dipendenti, per realizzare mezzo milione di tonnellate di acciai speciali ogni anno. Un impianto simile degli anni ’60 impiegava 1.000 addetti. Ma a guidare la linea di produzione, lunga settecento metri, sono solo tre tecnici, il resto è personale amministrativo. “Bisogna scordarsi che l’acciaio dia lavoro” ha detto a Bloomberg, Wolfgang Eder, amministratore delegato di Voestalpine. “Nel lungo periodo perderemo la maggior parte dei classici operai, persone che lavorano al caldo e nello sporco delle cokerie e degli altiforni. Tutto sarà automatizzato.”
Discorso analogo si può fare anche per altri settori manifatturieri che possono riguardare l’economia circolare di oggi, come quelli della chimica fine, la bioeconomia, ma interessa anche il settore agricolo che nell’ultimo mezzo secolo ha perso una percentuale enorme di addetti. L’agricoltura non concorrente con l’alimentazione, infatti, è già oggi in grado di realizzare coltivazioni, per avere commodity energetiche o manifatturiere a bassa intensità di lavoro, grazie all’agricoltura di precisione. In Pianura Padana si semina il mais memorizzando, attraverso le coordinate Gps, la posizione del singolo seme, cosa che consente la fertilizzazione esatta – fatta con il digestato residuo della produzione di biogas – e l’irrigazione altrettanto precisa – risparmiando il 30% di acqua – il tutto con un solo addetto. Dunque il pareggio con gli impatti dell’automazione ipotizzati da McKinsey rimane lontano.
Parallelismo circolare
Lo sviluppo odierno dell’economia circolare – necessario per salvaguardare le risorse del pianeta e quindi la vita della biosfera, specie umana compresa – deve passare attraverso l’innesto di pratiche sostenibili e circolari nei processi e nelle filiere produttive di oggi, che sono quelle che alimentano i danni che tentiamo di combattere, mantenendo la soglia occupazionale. In altre parole, per avere successo si deve inserire nel contesto economico odierno che ci ha portato alla maggiore concentrazione di CO2, degli ultimi 800.000 anni – 406,99 ppm di CO2 ad agosto 2018 – in una sostanziale parità economica. Gli elementi d’economia circolare devono quindi avere un prezzo pari a quelli lineari, a base fossile, pena il loro non utilizzo. Il paradosso è che l’economia circolare è oggi schiacciata in questa tenaglia multipla, dove il lavoro sottostà alle regole delle filiere consolidate, nelle quali si diminuisce in maniera drastica il numero degli addetti e si aumenta la produttività e l’unico modo di creare occupazione è creare nuovi settori. La conferma di ciò arriva da un studio della Commissione europea sull’economia circolare e il lavoro Impacts of circular economy policies on the labour market del maggio 2018 nel quale si prevede la creazione nell’Unione europea di circa 650.000-700.000 posti di lavoro aggiuntivi al 2013 con un incremento dello 0,3%. “L’impiego – affermano i ricercatori – segue la stessa dinamica del Pil perché i dati della produzione sono i driver della domanda di lavoro. E l’incremento sarà guidato per la massima parte dal settore della gestione dei rifiuti per far fronte alla maggiore domanda di materiali riciclati”. Ecco quindi che lo sviluppo dell’occupazione è, ancora, legato alla creazione di nuovi prodotti e processi di produzione, esattamente come fu all’epoca del fordismo. Nuove metodologie di produzione per nuovi prodotti creano nuova occupazione.
Analizzando nel dettaglio la ricerca della Commissione europea ci si rende conto che l’impatto dell’economia circolare sul mondo del lavoro conferma una sostanziale stabilità nella creazione di nuova occupazione nei settori più maturi come agricoltura, chimica, metalli, carburanti, plastica; una lieve diminuzione nell’elettronica, nei veicoli a motore e nei trasporti; un lieve aumento nella manifattura, nelle utility e nell’installazione/riparazione; una diminuzione secca nel settore delle costruzioni; aumento per i servizi, nonché decollo verticale per i rifiuti. Visto che rifiuti e servizi potrebbero non brillare per qualità del lavoro, potremmo chiederci se green job è sinonimo di good job. Ed è una delle questioni che pone un recente rapporto sul lavoro nell’economia circolare Waste Management in Europe. Good Jobs in the Circular Economy? realizzato a dicembre 2017 da Epsu (la federazione dei sindacati dei lavoratori pubblici europei) nel quale si legge: “Nell’entusiasmo per la creazione dei posti di lavoro, la discussione sulle condizioni e la retribuzione sono spesso messi da parte. A oggi non è stato scritto molto sulla qualità di questi lavori e su cosa significhi la transizione verso un’economia circolare circa i cambiamenti delle competenze e la delocalizzazione del lavoro. Si tratta – prosegue il rapporto – di posti di lavoro che sono per la maggior parte a basso reddito, poco qualificati e che comprendono oltre mezzo milione di persone impiegate nella raccolta dei rifiuti”.
E sono comunque posti a rischio visto che l’innovazione tecnologica potrebbe arrivare anche nel settore dei rifiuti. Robot per la separazione delle varie tipologie di rifiuti sono già sul mercato e si tratta di macchine dotate di intelligenza artificiale che consente l’apprendimento circa le nuove tipologie di rifiuti anche in maniera autonoma grazie alla sensoristica.
Capitale circolare
All’interno di una sostanziale “coesistenza” tra il modello economico esistente neoliberale, capitalista, fondato sugli assiomi dell’economia neoclassica e quello proposto dall’economia circolare 1.0 sembra che sia quest’ultimo a doversi adeguarsi al primo, per potere anche solo inserirsi con alcune buone pratiche. Ciò significa che non sarebbe l’economia circolare a dettare il cambio di paradigma necessario, ma al contrario dovrebbe farsi carico dell’aumento di produttività introdotto dalle nuove tecnologie, con la diminuzione del costo del lavoro e l’espulsione degli addetti. Con effetti paradossali come quelli di aumentare la protezione dell’ambiente, magari con la diminuzione drastica del contenuto di CO2 per unità di prodotto, accompagnata da un altrettanto drastico abbattimento dell’occupazione. Pensiamo a un settore oggi ad alta intensità di lavoro come la raccolta differenziata e il riciclo. In uno scenario ad alta automazione avremo un aumento della produttività, un incremento di resa finale e di valore con robot che riconoscono in automatico i materiali usati per gli imballaggi – vedi il settore delle plastiche – con un abbassamento del costo finale della materia prima/seconda e il conseguente sviluppo di mercato. Il tutto tutelando il capitale, l’ambiente, ma non il reddito e gli occupati.
E persino il lavoro di R&S potrebbe non spostare più di tanto quest’equazione. Stora Enso, gruppo svedese-finlandese che nel 2016 ha fatturato 9,8 miliardi di euro, con 25.000 dipendenti in 35 paesi, per esempio, ha deciso di mutare la propria produzione aggiungendo alla polpa di cellulosa la lignina che fino qualche tempo fa era uno scarto destinato alla produzione d’energia attraverso la combustione. La mutazione è stata netta. Se 10 anni fa circa il 65% dell’attività dell’azienda era legata alla carta, questa percentuale oggi è scesa al 30%, mentre i biomateriali innovativi sono al 14%. La nuova attività di trattamento della lignina Stora Enso la svolge nello stabilimento di Sunila in Finlandia dove sono prodotte 50.000 tonnellate di lignina all’anno dal 2015, usando il processo kraft, utilizzato normalmente per la conversione del legno in polpa di legno. Stora Enso è oggi il più grande produttore di lignina al mondo, cosa che gli ha consentito di lanciare sul mercato un nuovo prodotto, chiamato Lineo che sostituisce i fenoli d’origine fossile. L’investimento dell’azienda per il nuovo processo per la separazione della lignina è stato di 32 milioni di euro, senza incrementi occupazionali significativi visto che l’impianto, come tutti quelli di questo tipo, è a bassa intensità di lavoro. Il sito occupa, infatti, 150 persone che oltre alla lignina producono 370.000 tonnellate di polpa di cellulosa. E tutto il processo di trasformazione è guidato dai 70 ricercatori del nuovo centro di ricerca di Stoccolma dedicato ai biomateriali – che sono circa il 50% degli addetti alla R&S di Stora Enso, a livello mondiale. In pratica si sviluppano nuovi prodotti, con nuovi mercati, con investimenti relativamente bassi rispetto al fatturato, su filiere esistenti, producendo valore aggiuntivo per il capitale, per l’ambiente, ma non per la società.
Passando da un settore a un altro è interessante vedere ciò che sta succedendo nel gruppo multinazionale della moda H&M. L’industria ha lanciato due anni fa una serie d’obiettivi sulla sostenibilità e l’economia circolare. Tra questi: impiego al 100% di materiali sostenibili per la realizzazione dei prodotti al 2030, azzeramento degli scarichi di prodotti chimici pericolosi al 2020, uso efficiente dell’acqua al 2020, abbattimento totale delle emissioni climalteranti al 2030, efficientamento di tutti i negozi nel mondo – circa 4.800 per tutti i vari brand del gruppo – del 25% al 2030 e il l’’utilizzo del 100% di energia rinnovabile allo stesso anno. A inizio 2018, però, ha anche annunciato il lancio di un nuovo sistema di e-commerce multimarchio che dovrebbe avere caratteristiche di discount e contemporaneamente ha reso noto che nei prossimi anni saranno chiusi una serie di negozi fisici e ne saranno aperti meno di quanti pianificati in precedenza. Ossia meno addetti per la vendita. Il tutto nonostante il gruppo abbia chiuso il 2017 con un aumento di fatturato del 4% per 22,2 miliardi di euro. Poco importa che H&M abbia nel proprio report di sostenibilità un intero capitolo dedicato alle condizioni di lavoro lungo la propria catena di valore.
Il problema è, con ogni probabilità, alla radice. La perdita, o la creazione, di posti di lavoro per le imprese è, oggi, un’esternalità invisibile nella contabilità delle aziende, anche per quelle più attente all’ambiente.
Incrocio circolare
L’economia circolare è a un bivio. Si potrà inserire nel solco dell’innovazione tecnologica del ciclo industriale capitalistico, ignorando la questione del lavoro e aspettando che nascano meccanismi di compensazione dell’occupazione che ci sono stati nelle altre due rivoluzioni industriali, oppure prenderà un’altra strada? “La prima domanda è: ora che siamo di fronte alla nuova ondata tecnologica quale può essere il nuovo meccanismo di compensazione? La risposta non è semplice” afferma Andrea Fumagalli, docente in economia politica dell’Università di Pavia. “Non sappiamo come sarà questa nuova trasformazione. Saranno protagoniste le biotecnologie, le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale e i processi d’automazione. Sarà un progresso tecnologico che avrà a che fare con la gestione del corpo e del cervello umano e con quella di crescenti quantità di dati.” Ma questo è solo un lato del problema. L’innovazione, secondo Fumagalli, avrà una stretta correlazione con la vita umana. La tecnologia della vita, la sanità, il genoma, la prevenzione, le staminali, fino alla gestione del tempo libero, della sicurezza, saranno gli scenari inediti d’innovazione che riguarderanno anche l’economia circolare.
“Quale sarà il ruolo dell’economia circolare in questi settori non lo sappiamo. È un campo inesplorato” prosegue Fumagalli. “Nella gestione dei rifiuti e altri settori della green economy l’economia circolare funziona, ma la domanda di fondo è se tutto ciò sia sufficiente a mettere in moto dei nuovi settori legati alla compatibilità ecosostenibile che facciano da compensazione all’emorragia di posti di lavoro. Penso che l’economia circolare possa avere un ruolo nei servizi, come il lavoro della cura della persona, la promozione sociale, il welfare che sono tutti settori legati alla gestione del tempo delle persone.” Si tratta di settori dove non ci sono i limiti fisici delle risorse e nei quali ci sono due grandi spazi di sviluppo, e quindi anche di creazione del lavoro: i servizi della conoscenza e lo spazio virtuale. “La conoscenza è un bene non rivale che più si scambia più si diffonde e non è soggetto a limiti di scarsità mentre lo spazio virtuale è illimitato” afferma Fumagalli. “La ricchezza viene creata oggi più da elementi intangibili che tangibili. L’idea che soltanto l’investimento produttivo in beni tangibili crei valore oggi non funziona più.” L’economia circolare potrebbe essere, secondo Fumagalli, alla base di un modello economico nel quale l’essere umano lavora per l’essere umano e il valore d’uso sostituisce quello di scambio.
La potenzialità di questo modello è che il valore non è determinato dall’esterno e non è qualificato dall’accumulo. A decidere il valore sono le persone in base alle loro relazioni. E si tratta di caratteristiche in grado d’innescare la transizione – perché la creazione di valore all’infuori dello schema del capitale è la goccia d’acqua che può far traboccare il vaso del sistema insostenibile – sia sotto al profilo ambientale, sia sociale – fondato sull’economia fossile.
Riappropriarsi del tempo e delle relazioni da parte delle persone, nella chiave del valor d’uso potrebbe essere una delle strategie per uscire dal parallelismo economia circolare-economia tradizionale e imboccare il vero cambio di paradigma sostenibile.
McKinsey, Jobs lost, Jobs gained, 2017; tinyurl.com/y7wkamyf
M.Z. Jacobson et al., 100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries of the World, www.cell.com/joule/pdf/S2542-4351(17)30012-0.pdf?code=cell-site
Impacts of circular economy policies on the labour market, 2018; circulareconomy.europa.eu/platform/sites/default/files/ec_2018_-_impacts_of_circular_economy_policies_on_the_labour_market.pdf
Epsu, Waste Management in Europe. Good Jobs in the Circular Economy?; tinyurl.com/ybk5bczu