Nel mondo – dal Brasile al Giappone, dagli Usa all’Europa – circolano oltre cinquemila monete alternative. Nate per contrastare la crisi economica, complementari alle monete ufficiali, sono la risposta locale, autogestita, ai colli di bottiglia della finanza convenzionale, pubblica e privata. Con il vantaggio di legare al territorio la ricchezza prodotta localmente. Un altro modo, si potrebbe dire, di fare economia circolare: si chiude il cerchio della catena del valore che resta ancorata al luogo di produzione.
Il caso più conosciuto negli Usa è l’Ithaca Hour, lanciata nel 1991 nella omonima cittadina colpita da una pesante depressione economica dopo la chiusura di una fabbrica. I commercianti, promotori dell’iniziativa, cominciarono a pagare i fornitori con questa banconota pari a 10 dollari (che era il costo orario medio della manodopera). Alla fine degli anni ’90 l’Ithaka Hour era già diffusa presso centinaia di aziende e di consumatori.
In Brasile, di fronte alla fortissima svalutazione del real, ai primi anni ’90 il sindaco di Campina do Monte Alegre decise di emettere il Campino Real che poteva essere speso solo all’interno del territorio comunale e – in effetti – contribuì a rilanciare l’economia locale. Mentre nell’Argentina travolta dal crac delle banche e dalla svalutazione del pesos, nel 2002 circolavano oltre 200 monete complementari che hanno aiutato più di cinque milioni di cittadini a sopravvivere alla crisi.
Ma è il Wir (in tedesco significa noi), il circuito nato nel 1934 in Svizzera a opera di 16 soci in risposta alla crisi del ’29, a rappresentare l’esperienza di moneta locale più longeva. Il Wir non è né acquistabile né convertibile in franchi svizzeri, non viene neppure stampato. È piuttosto un’unità di misura che regola i crediti che vengono concessi alle aziende, e gli acquisti e le vendite di beni e servizi tra le oltre 45.000 Pmi che aderiscono al circuito. Nel 2015 il valore delle transazioni ha superato il miliardo e mezzo di franchi svizzeri. Volker Strohm, responsabile comunicazione di Wir ci spiega le ragioni del successo: “Siamo un player di livello nazionale. E il principio su cui si fonda questa esperienza, ossia che il denaro e la ricchezza prodotta localmente devono restare nel territorio soprattutto a beneficio delle Pmi, è ancora attuale. Tanto più oggi quando sono maggiori i flussi di denaro verso l’estero e la crisi finanziaria ha sottratto risorse per gli investimenti”. Dal 2000 Wir-moneta complementare è diventato anche una banca cooperativa a tutti gli effetti che opera con i franchi svizzeri, “una decisione scaturita per soddisfare l’esigenza di alcune aziende socie di usufruire di prestiti in franchi per investimenti da effettuare sul mercato convenzionale”, precisa Strohm. Un passo che ha quindi permesso di unificare sotto lo stesso “tetto” i due canali finanziari: quello in Wir e quello in franchi. “In prospettiva, per quanto riguarda il ruolo delle monete complementari – conclude Strohm – direi che si sta andando in due direzioni: da un lato c’è il bitcoin (moneta elettronica internazionale, ndr), una realtà in espansione che a mio parere presenta però dei rischi; dall’altro abbiamo le monete complementari legate allo sviluppo del tessuto produttivo locale. Entrambi ci dicono che è in corso un processo di ripensamento del denaro classico”.
In questo contesto così in fermento, è una iniziativa italiana a tenere banco sulle pagine di quotidiani come il Financial Times e a essere studiata alla blasonata London School of Economics e guardata con interesse persino dall’Onu: è il Sardex. All’interno di questo circuito di credito commerciale Made in Sardegna da sei anni si vendono e si comprano beni e servizi di ogni genere pagando con crediti in Sardex (per convenzione un Sardex vale un euro). “Prima di comprare qualsiasi cosa penso a come posso spendere i miei crediti dentro il circuito”, racconta sul blog di Sardex.net Manuela Statzu, libera professionista nel settore dell’edilizia con una propensione per la bioedilizia. E così, dall’affitto di casa, all’arredamento, alla spesa in un negozio specializzato in alimenti biologici, all’abbigliamento, alla lingerie, al centro estetico, al cibo per i gatti, alle vacanze, alle ceste natalizie per i clienti, ai convegni e pranzi aziendali compra tutto all’interno del circuito e paga con i crediti che incassa vendendo i propri servizi ad altri soci del network. “A parte la benzina, ormai l’euro non lo utilizzo quasi più”, conclude.
All’origine del Sardex ci sono l’idea di banca popolare di Pierre-Joseph Proudhon, l’esperienza del Wir, ma soprattutto la Proposal for an International Clearing Union formulata a Bretton Woods, senza successo, da John Maynard Keynes. Ce lo racconta Carlo Mancosu, uno dei cinque giovani e intraprendenti fondatori di questa innovativa esperienza di economia alternativa, che a giugno 2016 contava già oltre 3.500 iscritti tra liberi professionisti, ditte individuali, Pmi e grandi aziende (per esempio Tiscali) e associazioni del terzo settore. Dal 2010, anno di avvio, i crediti in Sardex oggetto di transazione sono stati pari a 140 milioni (+1.059% nel 2015 rispetto al 2012), per 300.000 operazioni effettuate. Un boom che si è esteso a macchia d’olio nel nostro paese con la nascita di undici circuiti regionali agganciati al Sardex (vedi box). “Keynes ha evidenziato che trattando in maniera simmetrica debitore e creditore si crea una spinta convergente, equilibratrice, verso lo zero”, spiega Mancosu. “Abbiamo applicato questo concetto all’interno del circuito innanzi tutto eliminando gli interessi attivi e passivi. E con il Sardex abbiamo dato vita a un circuito di mutuo credito come antidoto al credit crunch, particolarmente pesante per le Pmi.”
In pratica, il sistema consente di acquistare in Sardex (eventualmente sulla base di un fido iniziale a zero interessi) ciò di cui si ha bisogno, offrendo in cambio sul circuito i propri beni e servizi. In tal modo la rete si configura come un mercato aggiuntivo a quello tradizionale, un’opportunità in più di ampliare il proprio portafoglio clienti. E grazie ai legami fiduciari instaurati, la comunità si percepisce come tale e àncora al territorio la ricchezza economica prodotta in loco che diventa anche ricchezza sociale.
La grande famiglia Sardex
Sono 11 i network regionali partecipati da Sardex: in Piemonte c’è Piemex, in Lombardia Circuitolinx, in Veneto Venetex, in Emilia-Romagna Liberex, in Umbria Umbrex, nelle Marche Merchex, in Abruzzo Abrex, nel Lazio Tibex, in Molise Samex, in Campania Felix.
Tra dipendenti e collaboratori ci lavorano circa 200 persone. Complessivamente, Sardex compreso, su base nazionale si contano oltre 7.000 aziende/liberi professionisti iscritti; 10.000 i conti aperti, anche di dipendenti delle imprese. Si stima che nel 2016 il network dei circuiti di credito commerciale svilupperà operazioni di compravendita tra imprese locali per un valore di oltre 100 milioni di euro, di cui 70 in Sardex.
Particolarmente significativa la crescita di Liberex: partito nel 2015 a ottobre di quest’anno contava già circa 180 aziende e più di 200 dipendenti iscritti, mentre il transato ha superato il milione e mezzo di euro/Liberex. La convenienza a stare nel circuito? Analoga, ovviamente, al Sardex: “All’inizio hai un fido in Liberex a zero interessi, acquisisci fatturato tramite la comunità e spendi senza euro, che magari dovresti prendere a prestito da una banca pagando gli interessi”, snocciola Paolo Piras, responsabile comunicazione. Chi compone la comunità di Liberex? “Aziende grandi e piccole, come Achanto e il tutto-bio Natura sì, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, dentisti”. Perfino un ristorante, dove le tagliatelle con salsiccia le puoi pagare in Liberex.
“Con il sistema Sardex tutto è tracciato, tutto fatturato: dal punto di vista della legalità e della fiscalità questa moneta complementare è al di sopra di ogni sospetto di evasione e di contraffazione”, puntualizza Mancosu. Il fatto che il valore dei crediti si “monetizzi” nel momento in cui si usano per acquistare merci e servizi spinge chi li detiene a spenderli il prima possibile: lo conferma la velocità di circolazione del Sardex che è 12,34 contro 1,5 dell’euro. Più che una moneta in senso stretto, il Sardex funge da unità di conto per misurare le transazioni all’interno del circuito di credito commerciale. Non a caso, al pari del Wir, non si stampa, non è acquistabile con una somma corrispondente di euro, né è convertibile (il che lo protegge dalla speculazione); a differenza di monete locali complementari come il Bristol Pound, adottato nell’omonima città britannica, o il Brixton Pound, che sulle banconote porta impresso il volto del trasgressivo David Bowie e circola nel quartiere di Londra. Intorno a queste monete inglesi, che si acquistano in luoghi deputati in cambio di sterline, si è sviluppata una rete di esercizi commerciali dove i consumatori fanno i loro acquisti. In questo modo il controvalore corrispondente ai volumi di acquisti effettuati resta sul territorio.
Tornando al Sardex, per entrare nel circuito occorre superare un’attenta selezione finalizzata ad accettare i soggetti che abbiano spazi di mercato nella rete, sia per l’acquisto di beni e servizi utili, sia per la vendita dei propri prodotti. Quindi il circuito cresce sulla base delle necessità interne di sviluppo e i soggetti sono ammessi a farne parte in rapporto al prevedibile flusso di domanda e offerta da cui possano trarre beneficio nel far parte della comunità. In altre parole, si vuole evitare di riprodurre le storture del mercato convenzionale con un surplus della medesima offerta che farebbe esplodere la concorrenza interna. Oggi un migliaio di aziende sono in stand-by in attesa di stringere il patto con Sardex.
E i costi di gestione – solo in Sardegna la struttura dà lavoro a 80 persone – come vengono coperti? “Ai soci è richiesta una quota di iscrizione una tantum, più il pagamento di un canone annuale proporzionale alla loro ‘stazza’ economica: si va dai 100 euro di iscrizione più altrettanti di abbonamento annuale, ai 1.000 euro d’ingresso più 2.500 annui per le aziende più robuste”, risponde Mancosu.
Allo studio ci sono l’estensione della rete ai singoli consumatori finali con l’area B2C e anche l’ipotesi di quotarsi in Borsa. Con un occhio all’estero, aggiunge Mancosu: “Abbiamo ricevuto richieste da tutto il mondo, dal Sud America al Nord America, dall’Africa all’Europa, ed è probabile che l’avventura fuori dall’Italia cominci proprio dal Vecchio Continente, di cui si conoscono le normative in vigore”.
Quanto poi ai circuiti locali, “devono sviluppare i mercati regionali di riferimento nella logica di evitare di far girare da un capo all’altro del paese, per esempio, bottiglie di acqua minerale”. In effetti non c’è bisogno di elaborati studi sulla carbon footprint del circuito per concludere che funziona anche in termini di sostenibilità ambientale, in quanto il trasporto delle merci si mantiene entro i confini regionali diminuendo così i chilometri percorsi eventualmente su gomma.
Chi l’avrebbe detto che, dopo il fallimento a Bretton Woods, Keynes sarebbe ripartito dalla Sardegna.
Liberex, www.circuitoliberex.net
Sardex www.sardex.net
Immagine in alto: ©WikiCommons/Foto di Enlil Ninlil2
Intervista a Tonino Perna, docente di Sociologia economica all’Università di Messina
A cura di S. Z.
“Dobbiamo riappropriarci della sovranità monetaria”
Professore ordinario di Sociologia economica all’Università di Messina, Tonino Perna è autore del volume “Monete locali e moneta globale. La rivoluzione monetaria del XXI secolo” (Altreconomia, 2014), in cui sviscera il mutamento, nei secoli, del significato e delle forme di denaro. Fino alla diffusione, ai giorni nostri, delle monete complementari e al declino del dollaro come moneta globale regolatrice degli scambi sui mercati internazionali. Lo abbiamo intervistato.
Lei scrive che insieme ai Gas (Gruppi di acquisto solidali) e ai mercati a km0, le monete complementari locali fanno parte di un processo di de-globalizzazione dal basso della finanza e che rappresentano uno dei fenomeni più interessanti del nostro tempo legato alla richiesta di un’“altraeconomia” ecologica, solidale e capace di rimettere al centro bisogni e diritti delle persone.
“I cittadini, i consumatori e gli amministratori locali che promuovono le monete locali hanno bisogno di riappropriarsi di una parte di quella sovranità monetaria che è sfuggita loro di mano. La situazione debitoria dei Comuni – ormai estesa al mondo intero – ha portato e porta a una riduzione dei servizi e all’aumento delle imposte locali. Prendiamo, per esempio, il Comune di Roma che ha un debito di circa 12 miliardi di euro che va a sommarsi a tutti gli altri problemi: dal verde, alla raccolta dei rifiuti, alla sterminata manutenzione di tutto patrimonio pubblico. Bene, se potesse disporre di una quota di denaro locale complementare per tenere in vita l’economia del territorio e fare fronte a tutte queste esigenze, sarebbe un buona cosa. Del resto non c’è niente da inventare: prima dell’avvento della Zecca, i comuni italiani potevano battere moneta locale per i loro traffici economici sul territorio, mentre per il resto delle attività economiche c’era la moneta nazionale.”
Tra le tipologie di monete complementari ci sono i Local Exchange Trading System. Sono associabili alle banche del tempo?
“Sì, sono più o meno la stessa cosa: si tratta di scambiare servizi, prestazioni o beni, come capi di abbigliamento usati, che non si utilizzano più. Un ritorno, in forma moderna, all’idea del baratto con il vantaggio di creare una rete solidale. Le tecnologie digitali ne hanno permesso il rilancio. Ma non è un’opzione risolutiva, in quanto coinvolge solo i ceti medi e gli scambi sono limitati.”
Come valuta i circuiti di credito commerciale locali, come il Wir e il Sardex?
“I vantaggi sono evidenti: per prima cosa offrono la possibilità di accedere al credito. Per esempio in Sardex, vista l’impossibilità per alcune aziende di ottenere prestiti dalle banche, non è previsto il pagamento di interessi, né di costi di intermediazione bancaria. E, infine, creano un clima di fiducia, che è il collante fondamentale alla base del funzionamento di questi circuiti: si stabilisce una rete fiduciaria tra imprenditori e tra consumatori e imprenditori, nella quale il denaro diventa un intermediario, uno strumento che serve per gli scambi, che non è accumulabile e deve essere speso all’interno della comunità. Al contrario, quando il denaro è un fine in sé diventa uno strumento di potere, come si è visto.”
Come considera le monete locali che circolano nelle tasche dei consumatori, come il Bristol Pound?
“Sono esperienze importanti. Anche in Calabria ci sono sei comuni che stampano moneta complementare: la più famosa è il Riace, introdotta nel comune omonimo di 1.700 abitanti dal sindaco Domenico Lucano (inserito dalla rivista Fortune, unico italiano, tra i 50 leader più influenti al mondo, nda). Di fronte allo sbarco di oltre 400 profughi e alla necessità di coprire nell’immediato i loro costi di vitto, alloggio e assistenza dal momento che i contributi pubblici arrivano con grande ritardo, il sindaco si è inventato il Riace da distribuire agli immigrati, che così possono spenderlo per le loro necessità nei negozi del paese. Una soluzione da cui hanno tratto beneficio sia il commercio e l’artigianato locali, sia il processo di integrazione dei profughi nell’economia e nel tessuto sociale locale. Peccato che la Banca d’Italia, avendo perso con la nascita dell’euro la sua funzione storica – e qui sta il paradosso – invece di occuparsi a dovere del controllo degli istituti bancari intenda impedire che si stampi questa moneta. Che altro non è, come insegnano i classici dell’economia mondiale, che una promessa di pagamento, una sorta di voucher, che non sostituisce in toto l’euro, di cui l’immigrato avrà comunque bisogno per comprare, per esempio, una scheda telefonica.”
Condivide i giudizi negativi che circolano sul bitcoin?
“Il bitcoin è ‘chiacchierato’ perché in alcuni casi è stato coinvolto in traffici di droga. Essendo una moneta virtuale internazionale non ha però nulla a che fare con le monete complementari locali. Per impiegarlo occorre far parte della società che lo gestisce. Ha avuto un grande successo iniziale, ma il suo valore subisce forti oscillazioni e a mio parere ha molto a che fare con la speculazione.”
Lei scrive che il dollaro, soprattutto sotto la spinta dei Brics, perderà la sua funzione di moneta globale di riferimento per gli scambi internazionali. E nel futuro delle monete complementari locali cosa vede?
“Se non cambiano le politiche di austerity, se non si allenta la stretta sui bilanci comunali che hanno subìto pesantemente la crisi in atto, a prevalere sarà la necessità piuttosto che il desiderio di tentare strade diverse: se in Inghilterra lo fanno città abbastanza ricche, come Bristol, vuol dire che anche lì i comuni stanno soffrendo la crisi fiscale. Per questo credo che ci sarà un’ulteriore espansione delle monete locali, che potrebbe avvenire, come già accade in alcune città brasiliane, per esempio agganciandole alla tutela dell’ambiente locale. Resteranno comunque complementari: il loro ruolo è di riequilibrare il mercato, favorire la distribuzione del reddito, la tutela dell’ambiente, il rapporto tra città-campagna e tra zone interne e zone costiere, non di sostituire in toto le monete ufficiali. In questo senso sono parte di un percorso in cui le persone si riappropriano dello strumento-denaro. È difficile prevedere quanto questo fenomeno possa diffondersi nel mondo. Resta la realtà tangibile delle sperimentazioni in corso, e che alcune hanno alle spalle decenni di attività, come nel caso del Wir. Penso in particolare che abbiano un futuro le esperienze che vedranno impegnati in prima linea gli amministratori locali: tra i casi più recenti quello della sindaca di Barcellona Ada Colau che ha lanciato il progetto di moneta locale denominata Virtula. E in Italia è incredibile il numero di sindaci che in questi anni mi hanno telefonato perché vogliono tentare questa strada. Anche se poi, al momento di partire, si spaventano: perché rispetto al denaro vige una sorta di tabù, un rifiuto a interessarsi anche degli aspetti più facili della finanza. E verso le banche si manifesta una sudditanza psicologica, specie quando si intende chiedere un prestito. Dimenticando che, invece, le banche vivono in quanto prestano soldi.”