Ecco il mio problema con la decrescita: non riesco proprio a chiamarla così.
Non fraintendetemi: io penso che il movimento per la decrescita stia affrontando i più profondi interrogativi economici del nostro tempo. Credo che le economie nate per perseguire un’infinita crescita del Pil mineranno alla base i sistemi che rendono possibile la vita su questo pianeta e dai quali dipendiamo. Questa è la ragione per cui dobbiamo trasformare i modelli di governo, business e finanza che stanno alla base delle nostre economie e che sono totalmente dipendenti dalla crescita. Da questo punto di vista condivido ampiamente le analisi del movimento per la decrescita, e sostengo le sue proposte politiche di base.
Non ho alcun problema con le sue posizioni teoriche: il problema è il nome.
Ecco i cinque motivi.
Superare i missili. I miei amici sostenitori della decrescita mi dicono che questa parola è stata scelta intenzionalmente e in modo provocatorio come “parola missile” proprio per alimentare il dibattito. Capisco e concordo sul fatto che lo shock e la dissonanza possano essere validi strumenti per sostenere una causa.
Ma, per esperienza, ho verificato nel corso delle mie discussioni sui possibili futuri economici con un’ampia gamma di persone, che il termine “decrescita” si è rivelato essere un tipo molto particolare di missile: una bomba fumogena. Lanciatela in una conversazione e causerà una diffusa confusione ed errate supposizioni. Se stai cercando di convincere qualcuno che la sua visione di un mondo centrata sulla crescita è ben più che antiquata, è necessario argomentare con attenzione. Ma ogni volta che sbuca la parola “decrescita”, si passa il resto della conversazione a cercare di chiarire equivoci sul suo significato. Questa non è una strategia efficace a sostegno del cambiamento. Se vogliamo davvero rovesciare il dominio del pensiero economico centrato sulla crescita, semplicemente la parola “decrescita” non è all’altezza.
Definire la decrescita. Devo ammettere che non sono mai riuscita a capire veramente cosa significhi questa parola. Secondo degrowth.org, il termine indica “un ridimensionamento della produzione e dei consumi che accresca il benessere umano e migliori le condizioni ecologiche e l’equità sul pianeta”. Suona bene, ma non è abbastanza chiaro.
Stiamo parlando di decrescita del volume materiale dell’economia – le tonnellate di cose consumate – o del suo valore monetario, misurato attraverso il Pil? Questa differenza è davvero importante, ma raramente viene esplicitata.
Se intendiamo ridimensionare il throughput materiale, allora anche i sostenitori della crescita verde condividerebbero questo obiettivo, e quindi la decrescita deve specificare meglio che cosa intende per potersene distinguere.
Se intendiamo invece la riduzione del Pil (e qui la green economy e la decrescita si distanziano nettamente), allora decrescita significa un congelamento, un ridimensionamento del Pil, essere indifferenti a quanto succede al Pil o piuttosto dichiarare che non dovrebbe essere proprio misurato? In nome della decrescita ho sentito sostenere tutti questi argomenti, ma si tratta di aspetti parecchio diversi fra loro, con conseguenze strategiche molto differenti. Se non si fa maggior chiarezza non so proprio come utilizzare questa parola.
Imparare da Lakoff: i contesti negativi non sono vincenti. Lo scienziato cognitivo George Lakoff è un’autorità per quanto riguarda la natura e il potere dei contesti, ossia delle visioni di mondo che attiviamo (di solito inconsapevolmente) attraverso le parole e le metafore che scegliamo. Come ha documentato nel corso dei decenni, difficilmente avremo la meglio in un dibattito se cerchiamo di prevalere utilizzando lo stesso contesto del nostro avversario. Il titolo del suo libro Don’t Think of an Elephant (ed. it. Non pensare all’elefante! Fusi orari, 2006), evidenzia proprio questo aspetto, perché ci porta immediatamente a pensare a un… sapete che cosa.
Come funziona questo meccanismo in politica? Prendiamo per esempio il dibattito sulle tasse. È difficile argomentare contro la “riduzione della pressione fiscale” (altrimenti detta “taglio delle tasse ai ricchi”), perché il contesto positivo della “minor pressione” suona così desiderabile: argomentare a suo sfavore significa solo rinforzare il contesto che sostiene che le tasse sono un peso. Molto più saggio è riadattare la questione in un contesto positivo, per esempio appellandosi alla “giustizia fiscale”.
La decrescita cade in questa trappola? Di recente ho avuto l’occasione di porre la domanda a George Lakoff in persona, durante un webinar. Stava criticando il contesto economico dominante della “crescita”, e quindi gli ho domandato se il termine “decrescita” potesse costituire un’utile alternativa. “Per nulla” è stata la sua risposta immediata, “Innanzitutto è come ‘non pensare a un elefante!’, ossia ‘non pensare alla crescita!’. Usandolo attiviamo la nozione di crescita. Quando si nega qualcosa se ne rafforza il concetto”.
So che il movimento per la decrescita sostiene molte cose positive ed emancipanti. Il libro Decrescita: vocabolario per una nuova era, a cura di Giacomo D’Alisa, Federico De Maria e Giorgos Kallis è ricco di sfumature e di ottimi spunti sui temi della giustizia ambientale, della convivialità, delle cooperative, della semplicità, dell’autonomia e della cura, tutte collocate in un contesto positivo. Non è il contenuto, ma è l’etichetta di “decrescita” che rifiuto. Sono pronta ad adottare il resto del vocabolario, ma non il titolo.
È ora di cambiare aria. Concediamo solo per un attimo al termine “decrescita” il beneficio del dubbio e supponiamo che il missile sia atterrato e abbia funzionato. Il movimento sta crescendo e ha a disposizione siti internet, libri e conferenze dedicati a promuovere ulteriormente le proprie idee. Ottimo. C’è un disperato bisogno di questi dibattiti e di idee economiche alternative. Ma viene il momento in cui è necessario che il fumo si disperda e una luce ci guidi attraverso la nebbia: qualcosa di positivo a cui aspirare. Non un missile, ma un faro. E dobbiamo dare un nome a questo faro.
In America Latina lo chiamano buen vivir, traducibile come “vivere bene”, ma che significa molto di più. Nell’Africa del sud parlano di Ubuntu, la fede in un legame universale di condivisione che unisce tutta l’umanità. Sicuramente il mondo che parla inglese, una lingua che arriva a contare più di un milione di parole, può provare a trovare qualcosa che similmente possa essere fonte di ispirazione. Naturalmente non è facile, ma è necessario farlo.
Tim Jackson ha suggerito “prosperità”, che letteralmente significa “le cose che vanno nel modo auspicato”. La New Economics Foundation (NEF) – e molti altri – lo definisce in termini di “star bene”. Christian Felber propone “economia per il bene comune”. Altri (a partire da Aristotele), hanno parlato di “prosperità umana”. Io penso che nessuna di queste definizioni abbia fatto centro, ma sicuramente sono orientate nella giusta direzione.
C’è troppo in gioco e troppo da discutere. I dibattiti che hanno avuto luogo finora sotto l’egida della decrescita sono tra i dibattiti economici più importanti del 21° secolo. Ma molte persone non se ne rendono conto perché sono scoraggiati dal nome. Dobbiamo urgentemente elaborare una visione positiva e alternativa di economia che sia ampiamente coinvolgente. Questo è il modo migliore che ho trovato per esprimerla.
Abbiamo un’economia che necessita di crescita, indipendentemente dal fatto che questa ci faccia prosperare o meno. Abbiamo bisogno di un’economia che ci faccia prosperare, indipendentemente dal fatto che ci sia crescita o meno.
Si tratta di decrescita? Non saprei. Ma quello che so è che ogni volta che la propongo in questo modo nei dibattiti le persone annuiscono, e la discussione procede rapidamente arrivando ad affermare che siamo chiusi in un’economia della crescita obbligata a causa degli attuali modelli di governo, business, finanza e politica. Passando poi ad analizzare cosa dovremmo fare per liberarci da questa gabbia per poter perseguire piuttosto la giustizia sociale unita all’integrità ecologica.
Dobbiamo ricollocare questo dibattito in un contesto che invogli sempre più persone a farsi coinvolgere, se vogliamo creare la massa critica necessaria a cambiare la narrativa economica dominante.
Quindi questi sono i cinque motivi per cui penso che la decrescita abbia superato la propria definizione.
Credo che alcuni dei miei amici della decrescita risponderanno a questo blog (il mio piccolo missile) con irritazione, frustrazione o con un sospiro. Ci risiamo, dobbiamo spiegare di nuovo tutto da capo.
Se è così prendetene nota, perché quando ci si trova a dover spiegare continuamente tutto da capo, e a chiarire ripetuti malintesi, significa che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui le idee vengono presentate.
Credetemi, la risposta sta nel nome. C’è bisogno di un nuovo contesto.
Per gentile concessione dell’autore. Testi pubblicati originariamente sul blog di Oxfam From Poverty to Power; www.oxfamblogs.org/fp2p/?s=Kate+raworth
Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale di Tim Jackson, Edizioni Ambiente 2011; www.edizioniambiente.it/libri/572/prosperita-senza-crescita/