Lo scorso giugno, la Danimarca ha annunciato una proposta di legge rivoluzionaria. A partire dal 2030, il paese diventerà il primo al mondo a implementare una carbon tax sulle emissioni di gas serra prodotte dal bestiame. Nello specifico, gli allevatori danesi saranno chiamati a contribuire alle casse dello stato per un totale di 300 corone (all’incirca 30 euro) per ogni tonnellata di anidride carbonica equivalente emessa da pecore, mucche e suini.

In realtà, a causa di una detrazione fiscale del 60%, la cifra inizialmente sarà più bassa. Il costo effettivo per tonnellata partirà da 120 corone (circa 16 euro) per poi aumentare gradualmente fino a 300 corone entro il 2035.

La Danimarca vuole ridurre le emissioni del 70% entro il 2030

La decisione del governo danese, che dovrebbe essere confermata dal parlamento nei prossimi mesi, si inserisce nel piano nazionale di mitigazione del cambiamento climatico. È ormai cosa nota che il sistema alimentare nel suo complesso contribuisce in maniera massiccia alla crisi climatica, producendo circa un terzo delle emissioni di gas serra su scala globale. Jeppe Bruus, ministro delle finanze danese, ha infatti spiegato che l’obiettivo primo di questa tassa è quello di ridurre le emissioni di gas serra prodotte dal suo paese del 70% rispetto ai livelli del 1990. Rientra nella stessa strategia anche il piano d'azione per la promozione di diete plant-based e l’incentivo alla produzione di proteine vegetali pubblicato dal governo lo scorso ottobre.

Politiche molto ambiziose, e che tuttavia trovano giustificazione nel peso specifico che l’allevamento di bestiame ha in termini di inquinamento in Danimarca. Secondo i dati di Statistic Denmark, al 30 giugno 2022 nel paese si contavano 1.484.377 mucche. Considerando che  il bestiame è responsabile di circa il 32% delle emissioni di metano causate da attività antropiche e che in media una mucca danese produce circa 6 tonnellate metriche di CO2 equivalente ogni anno, ciò implica l’emissione di enormi quantità di CH4 nell’atmosfera.

A peggiore il quadro c’è poi il fatto che, come calcolato dagli scienziati americani della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), il metano prodotto naturalmente dalle flatulenze degli animali da allevamento intrappola circa 87 volte più calore nell’arco di 20 anni rispetto alla CO2.

Per questo, la decarbonizzazione del settore agroalimentare è una priorità assoluta della classe dirigente danese per accelerare la transizione ecologica. “Faremo un grande passo avanti verso la neutralità climatica nel 2045”, ha dichiarato Bruus, aggiungendo che la Danimarca “sarà il primo paese al mondo a introdurre una vera carbon tax nel settore agroalimentare” e augurandosi che “altri paesi seguiranno l'esempio”.

Soddisfatta della misura anche Debbie Tripley, Global Director of Campaigns and Policy Advocacy di Compassion in World Farming, intervistata da Materia Rinnovabile. “Il settore zootecnico è responsabile di circa il 18% delle emissioni di gas serra globali. Se non si affronta con urgenza questo problema, ci sono poche speranze di raggiungere l'obiettivo dell'Accordo di Parigi. Il nostro report, More Money, More Meat, ha rivelato che le persone nei paesi ad alto reddito consumano una quantità eccessiva di alimenti di origine animale e che una riduzione è fondamentale per rientrare nei limiti planetari. Lodiamo l'iniziativa del governo danese e invitiamo gli altri leader mondiali a riconoscere il ruolo significativo che l'allevamento intensivo svolge nella crisi climatica e ad agire di conseguenza.”

Le proteste degli agricoltori danesi

In Danimarca, però, non tutti hanno accolto positivamente la notizia, a cominciare da chi dovrà farne personalmente le spese. Il gruppo di agricoltori danesi Bæredygtigt Landbrug ha dichiarato che questa legge rappresenta un “esperimento spaventoso”. “Riconosciamo che esiste un problema climatico, ma non crediamo che questo accordo risolverà i problemi”, ha commentato il presidente Peter Kiær. “Anzi, ostacolerà investimenti tecnologici necessari in un paese che è già uno dei produttori agricoli più verdi al mondo”, ha aggiunto.

Peder Tuborgh, CEO di Arla Foods, il più grande gruppo lattiero-caseario d'Europa, ha definito la misura “positiva” ma ha poi precisato che gli agricoltori che “fanno davvero tutto il possibile per ridurre le emissioni” adottando già pratiche sostenibili, come i produttori biologici, non dovrebbero essere soggetti a una tassa.

In tutta risposta, Søren Søndergaard, presidente del Danish Agriculture & Food Council, ha dichiarato: “Siamo riusciti, contro ogni previsione, a ottenere un modello fiscale in cui l'agricoltore che utilizza soluzioni climatiche approvate ed economicamente sostenibili può evitare completamente la tassa.”

In Nuova Zelanda niente da fare per la “burb tax”

Meno fortunato il tentativo della Nuova Zelanda di introdurre una tassa simile a quella proposta dal paese scandinavo. Denominato “burp tax”, il disegno di legge era stato avanzato dalla maggioranza di governo neozelandese nel 2022 e sarebbe dovuto entrare in vigore nel 2025.

La Nuova Zelanda ospita poco più di 5 milioni di abitanti, 10 milioni di bovini e ben 26 milioni di ovini. Ciò significa che nel paese ci sono sette volte più mucche e pecore che persone. Non sorprende quindi che quasi la metà delle emissioni totali di gas serra del paese provenga dall'agricoltura, e che queste siano riconducibili principalmente al metano.

Eppure, le emissioni del settore agroalimentare erano state inizialmente escluse dall’Emission Trading Scheme nazionale, il mercato interno dei crediti di carbonio. Una scelta fortemente criticata dalle associazioni ambientaliste, che hanno espressamente chiesto al governo di modificare questa decisione per facilitare una riduzione radicale proprio delle emissioni di metano. Gli scontri tra le parti avevano portato poi alla sottoscrizione dell’iniziativa He Waka Eke Noa, di fatto un piano di collaborazione tra il governo neozelandese e vari rappresentanti del settore primario, comprese le popolazioni indigene iwi Maori, contenente delle raccomandazioni chiare per integrare le emissioni generate dalle attività agricole nei mercati di carbonio.

Il nuovo governo ha assecondato le proteste degli allevatori

A giugno 2024, contestualmente all’avanzamento della proposta danese, quella della Nuova Zelanda ha invece subìto uno stop che pare definitivo. Complici sicuramente i risultati delle ultime elezioni politiche, che nel 2023 hanno portato al potere la nuova coalizione di centrodestra guidata dal National Party di Christopher Luxon, sostituendo quella liberal-progressista dall’allora prima ministra Jacinda Arden. Arden stessa aveva più volte difeso l’introduzione della tassa, sostenendo che fosse necessaria per rallentare il riscaldamento globale e che gli agricoltori avrebbero potuto recuperare i costi applicando prezzi più elevati per la carne a basso impatto ambientale.

A motivare l’affossamento della legge da parte del nuovo governo c’è anche la volontà di assecondare le proteste degli agricoltori e degli allevatori che negli ultimi due anni avevano causato tensioni e disordini in tutta la nazione, e che spiegano in parte anche il cambio al vertice del paese. Comunque la si pensi, il dato politico è che la Nuova Zelanda ha dichiarato che non includerà le emissioni del settore agricolo nel suo Emission Trading System, prediligendo l’esplorazione di metodi alternativi per ridurre le emissioni di metano.

“Non ha senso trasferire posti di lavoro e produzione all'estero, dove i paesi meno efficienti nella riduzione delle emissioni di carbonio continuano comunque a produrre il cibo di cui il mondo ha bisogno”, ha dichiarato il ministro dell'agricoltura Todd McClay. “Ecco perché ci stiamo concentrando nel trovare strumenti e tecnologie pratiche per i nostri agricoltori, in modo da ridurre le emissioni senza tagli alla produzione e alle esportazioni.” Pertanto, la nuova coalizione ha annunciato che investirà 245 milioni di dollari nella commercializzazione di tecnologie per la riduzione delle emissioni nel settore agricolo. Durissima la reazione del partito dei Verdi, terza forza politica in parlamento per numero di seggi, che si è detto deluso dal fatto che il governo abbia, ancora una volta, “rimandato l’azione climatica”.

 

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Immagine di copertina: Envato