I media sono pieni di notizie e analisi sulla Brexit; se ne parla nelle case di tutta Europa, mentre politici, investitori, industriali e cittadini stranieri residenti nel Regno Unito (e viceversa) passano notti insonni a confrontarsi sul tema.
Allora perché concentrarsi – anche solo per un attimo – sull’impatto che produrrà la Brexit sulla bioeconomia?
La risposta è piuttosto semplice: è difficile trovare un altro ambito nel settore della ricerca e sviluppo tecnologico, nell’innovazione e nella futura cooperazione transnazionale europea più indicativo – e più adatto – a prestarsi come vetrina delle infauste conseguenze di quanto deciso il 23 giugno.
Certo, il Regno Unito, i suoi politici, ricercatori e imprenditori non sono mai stati tra gli entusiasti della bioeconomia: non erano nel gruppo dei pionieri o tra i più convinti promotori dello sviluppo dell’ idea – vecchia e nuova allo stesso tempo – di incrementare l’uso delle risorse biologiche. I maggiori sostenitori si trovavano piuttosto nei paesi del Benelux, della Scandinavia, in parte in Germania e, in un secondo momento, in Italia e Francia se parliamo di bioeconomia applicata.
Sulle prospettive di una biobased economy europea i rappresentanti della Gran Bretagna hanno tenuto un atteggiamento più del tipo “aspetta e osserva”; evidentemente hanno preso tutto il tempo che serviva loro per arrivare a definire cosa potesse essere meglio per il paese, le sue industrie e la sua società. Non essendo in generale il Regno Unito una terra a forte vocazione agricola, non possedendo un’abbondanza di risorse in biomassa, ma dovendo gestire invece grandi quantità di rifiuti, il governo britannico ha ragionato con attenzione seguendo un approccio step-by-step. Nonostante l’assenza di una strategia nazionale, e pur cercandone intensamente una, si sono sviluppate aziende di fama mondiale come Nnfcc, Celtic Renewables e Biome Bioplastics, mentre BioVale (cluster tecnologico della regione dello Yorkshire and Humber) è diventato partner in interessanti progetti di cooperazione con paesi del Benelux, Francia e Germania.
La Scozia – tra le prime regioni europee a farlo – ha sviluppato una strategia per bioraffinare autonomamente e nel 2012 per la prima volta in un Parlamento si è discusso durante un’audizione sulle potenzialità della bioeconomia.
I colleghi del Regno Unito, nonostante il loro “percorso in salita” – come lo ha giustamente definito Mario Bonaccorso nel recente Dossier UK scritto per Materia Rinnovabile – erano e sono consapevoli di avere forti e indubbi vantaggi, veri punti di forza se paragonati al resto d’Europa: realtà di eccellenza nei campi della ricerca, della tecnologia e dell’innovazione che operano e “fanno scuola” nel paese. Inoltre, la Gran Bretagna può vantare capacità e competenze tecniche pressoché uniche nella creazione di network, nella capacità di integrare e di applicare un approccio pragmatico nel trasferimento delle conoscenze ai prodotti, lungo tutta la catena del valore. E non va ovviamente dimenticato uno spiccato senso dell’economia. Si tratta evidentemente di competenze essenziali per il decollo della bioeconomia.
Non è un caso, per esempio, che la prima Banca per gli Investimenti Ecologici sia nata nel Regno Unito, e che i nostri colleghi al di là della Manica siano stati i primi a sostenere la necessità e ad attivarsi per la creazione – a supporto dello sviluppo della bioeconomia europea – di un nuovo settore di servizi, anche legali, di un project management specifico per la gestione di catene di valore circolari, di un marketing appropriato e di precisi requisiti finanziari. E per essere efficaci questi servizi avranno chiaramente bisogno di un’Europa unita e forse – in futuro – persino di strutture e accordi globali.
È su questo piano quindi che l’assenza dei nostri amici che lasciano l’Unione europea si farà sentire per prima.
Chiaramente, è ancora impossibile stabilire con precisione quali saranno gli effetti della “Bioeconomy Brexit” all’interno del Regno Unito, o sui rapporti tra parte di esso e l’Unione europea, relativamente all’accesso ai mercati o allo scambio di ricercatori nell’ambito del Marie Curie Programme, o nella partecipazione a progetti finanziati nel quadro del programma Horizon 2020.
Se ci guardiamo intorno ci sono diversi scenari possibili rappresentati da paesi che non sono membri Ue, ma che con l’Unione mantengono intense relazioni: c’è uno “scenario Norvegia”, uno “scenario Islanda”, uno “scenario Svizzera” e così via. Di sicuro oggi c’è solo un elemento, la cui certezza mi deriva dalle esperienze fatte in questi ultimi anni e che voglio sottolineare: tutto sarà ancora più complicato e richiederà ancora più tempo. Dubito che qualcuno possa uscirne dicendosi “vincitore”, basti pensare che nel caso della Svizzera oggi sono in vigore più di 120 trattati a regolare le relazioni tra questo paese e la Ue.
Mi ha quindi molto colpito la dichiarazione dell’Unfccc, pubblicata il giorno dopo il voto su Brexit, in cui si assicurava che sarebbe stata fatta pressione sul governo britannico affinché riconosca il ruolo centrale della bioeconomia europea per l’innovazione, per lo sviluppo e rispetto alle future sfide comuni, non ultima quella della cooperazione transnazionale europea.
La celebre canzone “It is a long way to Tipperary” recita: “Arrivederci Piccadilly, addio Leicester Square”, ma nella bioeconomia e nella ricerca e sviluppo tecnologico europei voi, colleghi del Regno Unito, sarete sempre i benvenuti.
Intanto, mentre i media già speculano sul trasferimento delle sedi di grandi aziende – e, tra queste, di Vodafone – dalla Gran Bretagna al continente, vale la pena di riflettere su quanto sia esemplare questa vicenda. La domanda da porsi infatti è: la stessa creazione del Vodafone Group, avvenuta dopo l’acquisizione della tedesca Mannesmann autorizzata dalla Commissione europea più di dieci anni fa, sarebbe mai stata possibile se non fosse stato in precedenza sviluppato uno standard comune europeo per il Gsm – poi adottato a livello globale – all’interno di un mercato unico europeo? E se il Regno Unito in tutto ciò non fosse stato a pieno titolo un membro dell’Unione europea?
Non riesco a immaginare un esempio più appropriato per dare un’idea dei potenziali impatti della Brexit sul futuro di un mondo e di una vita biobased che noi in Europa fummo i primi a rilanciare, 11 anni fa.
Oggi ci troviamo tutti nuovamente di fronte a un percorso in salita!
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