Pubblichiamo il quinto articolo realizzato nell’ambito della collaborazione con GreenX.
Il progetto GreenX nasce dalla collaborazione tra la società HBI e l’innovation manager Jacopo Deidda Gagliardo e il ricercatore Giovanni Venegoni, con l’obiettivo di fare divulgazione di contenuti riguardanti l’economia circolare e la sostenibilità.

Convenienza” e “sostenibilità” sono due parole hanno storie diverse, ma che hanno oggi un comune problema. A fronte di significati molto ampi e indefiniti, sono usate per riferirsi a due ambiti precisi: la prima all’immaginario economico, in cui la “convenienza” rimanda ad un vantaggio economico di un acquisto, un investimento, rispetto ad un altro; la seconda, invece, ad un ambito più prettamente ambientale, sebbene la “sostenibilità” abbia un valore olistico – economico, sociale, culturale, ambientale.
Da questa condizione deriva la difficoltà di allineare le risposte di diversi interlocutori su una domanda all’apparenza banale: “Conviene una filiera sostenibile?”. Se, poi, le persone invitate a rispondere sono
Stefano Savi, direttore del Global Platform for Sustainable Natural Rubber (GPSNR), basato a Singapore, e Roberta Pinamonti, manager al Business for Social Responsability (BSR) – anche questa basata nella città-stato asiatica, la questione diventa di non secondaria importanza.

Una filiera sostenibile conviene?

La domanda, secondo me, è sbagliata”, esordisce Stefano Savi. “Secondo me non è un discorso di convenienza. Non è quello il punto centrale della sostenibilità. Sostenibilità vuol dire cercare di fare le cose oggi in una maniera tale che riusciremo a farle nello stesso modo in futuro e quindi non è un discorso di convenienza”. Roberta Pinamonti sceglie un approccio moderato: “È vero, non c’è soltanto la convenienza. C’è anche una questione di maggiore consapevolezza da parte di molti attori sui temi della sostenibilità; consapevolezza che porta anche a determinati livelli di pressione sulle aziende ad operare in modo più sostenibile, pressioni che vengono da varie parti, che dipendendo ovviamente dall’industria di cui si parla”.

Filiera lunga, tanti problemi

Parlando di filiere globali, lunghe, multilivello e multistakeholder, le considerazioni di Savi e Pinamonti sono ancora più corrette: il sudest asiatico è terra di estrazione di materie prime, di produzione di semilavorati, di grandi bacini di manodopera a basso costo. Se si ragiona in termini di convenienza, coloro che si trovano all’origine della filiera, a monte di molti passaggi, le risorse per la retribuzione dei lavoratori e per la costruzione di progetti di tutela ambientale sono estremamente ridotte.
Parlando della filiera della gomma naturale, Savi sottolinea: “La GPSNR si occupa di sostenibilità nella gomma naturale: cercare di capire come possiamo disegnare e implementare una filiera sostenibile nella gomma naturale è il nostro obiettivo. Ci sono diversi problemi in questa filiera: per esempio, nella gomma naturale la produzione avviene in una fascia compresa tra 10 gradi sopra e 10 gradi sotto l’equatore. Quindi tutto nella zona tropicale, ma sono i consumatori europei e americani che in gran parte, dopo i consumatori cinesi, si approvvigionano in questo materiale”. Deforestazione e cambiamento climatico, ma non solo: “le esternalità sono anche dovute al fatto che i prodotti non vengono pagati e remunerati in maniera corretta agli agricoltori”. Sono loro ad essere al centro di questa produzione, ma scompariranno o saranno allontanati dalle aree rurali se la situazione non diventerà più sostenibile, nel senso di una maggiore equità, proporzionalità a livello di remunerazione e a livello di impatto – anche sociale – delle produzioni agricole.
Anche dal punto di vista di BSR la situazione non cambia. Un tema importante è la pressione esercitata dagli stakeholder lungo la filiera: “consumatori, ma anche regolatori e investitori hanno attenzione per i comportamenti etici”. D’altronde, non è facile operare sui singoli operatori della supply chain: “parlando di filiera si parla soprattutto di piccole e medie imprese, che sono comunque legate alle grandi aziende: si va verso una catena di fornitura con determinate pratiche”. Una nota positiva è che la sensibilizzazione dei big player può avere un effetto significativo, imponendo un aumento dell’attenzione verso impatti, esternalità e sostenibilità.

Cambiare la propria filiera conviene (dal punto di vista ambientale, sociale ed economico)?

Ci sono diverse aziende che l’hanno dimostrato – risponde Stefano Savi - Sono ormai disponibili dati sul fatto che le aziende che producono e si rapportano con il loro business in maniera sostenibile sono più profittevoli delle altre. Questo non è soltanto perché sono sostenibili dal punto di vista ambientale o sociale, ma è anche perché hanno sviluppato sistemi e modi di interagire con l’ambiente di lavoro, congli employees, con il business plan e i target che diventano più profittevoli e più efficienti”. Savi sottolinea il collegamento tra visione, business strategy e sostenibilità: “quelle aziende che guardano in modo disruptive i loro business plan, con un orizzonte lungo, hanno risultati migliori”. L’accento è posto sulla possibilità di ottenere risultati economici meno brillanti nel breve termine, in nome di migliori performance nel medio-lungo periodo: si tratta di impostare KPI, obiettivi a breve termine e strategie che siano basate su una visione del futuro sostenibile per l’azienda – viene in mente il riferimento al concetto di “successo sostenibile” elaborato nel Codice di Corporate Governance 2020.
Il successo sostenibile, tuttavia, non può essere esclusivamente economico. Considerare solo il valore economico come output di un’impresa può andare bene per il bilancio finanziario, ma a lungo andare avrà impatti devastanti, insostenibili.

Il vantaggio competitivo dei business non-sostenibili

Cambiare la filiera, innovare, sviluppare nuovi processi, metodi e sistemi di produzione, approvvigionamento: sono parole che sono diventate keywords per la transizione verso supply chain sostenibili. Ma si tratta di trasformazioni che hanno un costo. Il business-as-usual è considerato un business consolidato: sono state fatte molte ottimizzazioni nel tempo, che si sono tradotte con un’ottimizzazione dei costi; un business sostenibile è un business nuovo che necessita di tutta una serie di nuove ottimizzazioni e quindi generalmente ha dei costi più alti – almeno dal punto di vista economico. Il green-premium, ossia quello che si valuta sarebbe il prezzo di un prodotto o servizio se venduto “a impatto zero”, richiede, per essere collocato sul mercato, un provvedimento esterno: per ora, gli Stati sono intervenuti con detassazioni o sovvenzioni. Ma laddove le istituzioni fanno – o faranno – fatica ad intervenire, si può parlare di “vantaggio competitivo dei business non sostenibili”?
Roberta
Pinamonti allarga l’orizzonte: “l’UE sta promuovendo con forza il ruolo degli Stati e dell’Unione stessa. Implementare questi strumenti servirà come ponte fino a che non si “chiuderà” il technology gap tra le tecnologie consolidate e quelle nuove, sostenibili”. I pacchetti di incentivi e finanziamenti previsti per favorire la ripresa post-COVID e per promuovere la transizione verso modelli di produzione a ridotto impatto ambientale (fondi che sosterranno anche il PNRR) sono uno degli strumenti individuati da Pinamonti. Inoltre, nonostante i costi, la sostenibilità sta diventando un tema ineludibile: “ti conviene proprio perché, sempre parlando della filiera, hai bisogno di costruire una filiera resiliente, perché ci sono shock e questioni in arrivo – come può essere il climate change, come una legge o una regolazione – che in un modo o nell’altro ti costringeranno a lavorare su queste tematiche”, sottolinea Roberta. “È proprio una questione di gestione proattiva della tua catena di fornitura e della tua catena del valore”.
Stefano Savi va alla radice della questione, alla base della filiera: all’imprenditore. L’accento è da porre su una situazione globale in cui le produzioni sono sostenute economicamente e politicamente dagli Stati per mantenere bassi i prezzi o per garantire l’accesso ad alcune risorse: si tratta di risorse da destinare al più presto al
gap-filling e alla trasformazione, per evitare che si creino situazioni paradossali di sostegno al business-as-usual. Tuttavia, l’imprenditore è il centro della questione: la sostenibilità nasce da “una volontà di cambiamento e l’imprenditore, per definizione, è quello che deve portare il cambiamento nell’azienda. Se no, chi lo fa? Chi si prenderà, adesso, il rischio e poi il guadagno?”