Michael Braungart, una laurea in chimica, nel 1987 ha fondato Epea, l’Environmental Protection and Encouragement Agency con sede ad Amburgo, di cui oggi è amministratore delegato. Da oltre vent’anni il suo nome e quello dello statunitense William McDonough sono legati all’innovativo design concept “Cradle to Cradle”, “dalla culla alla culla”. Il loro ultimo libro nella versione tedesca è stato tradotto con Die intelligente Verschwendung. The Upcycle: Auf dem Weg in eine neue Ueberfluss-gesellschaft, ossia “Lo spreco intelligente. The upcycle: verso una nuova società dell’abbondanza”. Si tratta di una pura provocazione oppure sul piano teorico e pratico ci può essere uno spreco intelligente?
“Alla base del concetto di ‘intelligente Verschwendung’ c’è la considerazione che disponiamo di una quantità di input energetici superiore di oltre 20.000 volte ai nostri bisogni, ragion per cui possiamo comportarci generosamente nell’impiego di materiali ed energia. A patto però che ciò che produciamo sia concepito per arrecarci benefici anziché limitarsi a ridurre gli impatti negativi, e che sia predisposto al riuso post-consumo dei materiali, invece di diventare un rifiuto. Soddisfatte queste condizioni, alla fine non si spreca nulla”, ci risponde Braungart. “Questo approccio invita a festeggiare la vita, il nostro ruolo di esseri umani e la nostra impronta, invece di sentirci un peso per il pianeta. In questo senso il titolo ha in parte un intento provocatorio verso l’approccio culturale del popolo tedesco orientato prioritariamente a ridurre la pressione sulla Terra. In ogni caso parliamo di spreco intelligente, non di spreco stupido. Niente a che fare con quanto si vede sulle vostre autostrade: colpisce vedere come gli italiani si divertano a gettare i rifiuti fuori dalle loro auto per tenerle pulite all’interno. Il problema è che non si tratta di materiali e beni concepiti per poter essere buttati per strada senza arrecare danni.”
Purtroppo lei non è il primo straniero a sottolinearmi questa pessima abitudine di casa nostra. Ma passiamo alla sua affermazione secondo la quale oggi l’inquinamento indoor è superiore a quello outdoor a causa delle polveri sottili e di altri inquinanti che vengono liberati, per esempio, da moquette, carte da parati, stampanti laser.
“Si tratta di materiali e beni che non sono pensati per essere impiegati in ambienti chiusi. Inoltre, per isolarli termicamente, oggi si costruiscono edifici sigillati che contribuiscono ad aumentare la concentrazione degli inquinanti indoor: un classico esempio di cose sbagliate fatte perversamente alla perfezione. In Germania il 40% delle case è affetto da muffe, col risultato che si diffondono i casi di asma infantile. Senza contare i danni da esposizione alle polveri sottili e agli idrocarburi policiclici aromatici liberati nell’aria, per esempio, da tappeti e moquette. È mai credibile che basti esporre all’aria per 24 ore un materasso comprato all’Ikea per eliminare tutti i problemi che può generare? Sul mercato, però, sono disponibili innovativi prodotti ‘Cradle to Cradle’, come un letto che abbiamo progettato con una ditta olandese, il primo concepito per essere usato in un ambiente chiuso senza pericoli per la salute.”
Cradle to Cradle
La rivoluzione industriale dei prodotti certificati “Cradle to Cradle” va a gonfie vele in tanti settori: sono migliaia i prodotti presenti sul mercato con questo marchio. Cinque i fattori valutati nel processo di certificazione: impatto sulla salute dei materiali impiegati distinguendoli tra appartenenti al ciclo biologico o a quello tecnologico; possibilità di riciclo post-consumo in sicurezza dei materiali riconducendoli al ciclo di provenienza; impiego di energie rinnovabili nel processo produttivo e azzeramento delle emissioni di CO2; uso responsabile dell’acqua come bene inalienabile dell’uomo; rispetto dei diritti dei soggetti e dei sistemi naturali coinvolti nella progettazione, uso, gestione post-consumo e riuso dei prodotti.
Nel settore edilizio – che la fa da padrone – si trovano facciate e rivestimenti per interni che a fine vita possono tornare al produttore che ne ricaverà altri prodotti; mattoni d’argilla ad alto potenziale di inerzia termica anch’essi riciclabili. Al posto della convenzionale lana di roccia sono disponibili isolanti realizzati con innocui materiali organici non infiammabili.
Nel comparto tessile c’è un tessuto biodegradabile adatto, per esempio, per confezionare indumenti da lavoro ad alta resistenza che dopo 50 lavaggi vengono ritirati dal produttore e riciclati come humus. Ampia anche la scelta tra i prodotti di igiene per il corpo e di cura per i capelli, e per detergenti domestici e detersivi.
Non solo. Esistono colori impiegabili in tipografia prevalentemente a base di oli vegetali e biosolventi, e tinture per tessuti ottenute da estratti di foglie di ulivo, utilizzabili anche per la lavorazione del cuoio grezzo. Non manca nemmeno una chitarra costruita sul modello della mitica Fender, ma con materiali certificati C2C.
Cinque i gradi di eccellenza crescenti previsti dalla certificazione: basic, bronzo, argento, oro, platino. Finora un unico prodotto si è laureato a pieni voti con il platino: un rivestimento per esterni e interni realizzato in corteccia d’albero rigenerata.
Per risolvere i problemi di inquinamento indoor lei propone di rovesciare il concetto di passive house (casa energeticamente passiva) in house like a tree (casa come un albero) e passare da sealed buildings (edifici sigillati) a healthy buildings (edifici salubri). Cosa significa concretamente?
“Per prima cosa bisogna cambiare l’assetto mentale di partenza e considerare gli esseri umani come un’opportunità per il pianeta. È un approccio completamente diverso e cruciale, perché le religioni, compreso l’Islam, vedono nell’uomo il male che solo Dio può redimere. Di conseguenza, il massimo a cui potremmo aspirare è fare le cose un po’ meno male. Ma siamo troppi sulla Terra perché possa bastare ridurre i danni. Perché, invece, non costruiamo edifici che, al contrario, sostengono la nostra esistenza? Edifici con le caratteristiche positive degli alberi, ovvero in grado di pulire l’aria rimuovendo le polveri sottili e gli altri inquinanti, di filtrare l’acqua e di essere vantaggiosi anche per le altre specie viventi.”
“Edifici come alberi, città come foreste”: è il tema da lei approfondito l’anno scorso alla Biennale di Architettura di Venezia. È una visione senz’altro molto poetica, ma come si traduce in pratica?
“In realtà è molto semplice. Basta guardare come funziona un albero, come supporta la vita di oltre 200 diverse specie viventi, come pulisce il suolo, come disinquina l’aria, come cambia i colori a seconda delle stagioni, come si riproduce e sostiene la propria esistenza. Tutte cose che un edifico convenzionale non può fare, per cui, paragonato a un albero, risulta molto più primitivo. Ecco perché esorto a prendere come esempio gli alberi. La domanda giusta da porsi è come si possa generare all’interno degli edifici aria pulita e sana per chi ci abita o lavora. E la risposta a questa domanda è legata all’innovazione tecnologica di qualità. Perché non sfruttare 100 metri quadrati di pavimento di un appartamento coprendolo con una moquette in grado non solo di non diffondere cattivi odori ma anche di ripulire l’aria? È questa l’innovazione che ci serve. Ci sono vernici che non sono anti-microbiche, ma, al contrario, pro-microbiche grazie ai microrganismi attivi che contengono capaci di depurare l’aria divorando gli inquinanti: una performance che solo una ventina di anni fa sembrava pura fantascienza. E proprio grazie all’innovazione tecnologica di qualità,che non origina extra costi, i profitti delle aziende produttrici sono superiori del 20-30% a quelli usuali nel settore. Lo stesso avviene con le imprese che producono materiali isolanti per l’edilizia a base di innocue sostanze organiche: guadagnano di più.”
Qualche esempio?
“Nel settore delle moquette penso alla Desso, un’azienda che produce moquette modulari con queste caratteristiche. C’è poi una ditta in Svizzera che si sta affermando in particolare sul mercato dei sedili montati sugli aerei grazie all’impiego di materiali che contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria indoor, notoriamente piuttosto scarsa nelle cabine. Sono prodotti che stanno agli antipodi rispetto ai tradizionali sofà imbottiti di schiume sintetiche e rivestiti di tessuti talmente intrisi di sostanze tossiche che a fine vita finiscono negli inceneritori. Siamo ormai abituati a produttori che ci informano che i loro prodotti sono ‘liberi da’ (free from) determinate sostanze tossiche, ma non basta: occorre conoscere la qualità e salubrità di tutte le componenti di un prodotto. Da studente mi sono divertito a smontare un televisore: ho così individuato oltre 4.000 componenti chimiche. La domanda è: ci interessa possedere qualche migliaia di diversi composti chimici o vogliamo più semplicemente poter guardare la tv? La risposta a questa domanda ci porta a passare dal concetto di proprietà a quello di servizio e di uso di un bene, come avviene con le merci più innovative. Restando nel settore dell’edilizia, oggi ci sono facciate degli edifici di cui si vende l’uso, non la proprietà, una soluzione che per gli utilizzatori finali abbassa i costi di accesso ai beni. Del resto non ci serve possedere la facciata, ma poterla usare. È un’impostazione mentale completamente diversa.”
Ci sono già edifici realizzati come alberi e quartieri, se non proprio città, progettati e sviluppati come foreste? E l’ esperienza del milione di alberi piantati a New York tra il 2011 e il 2015 può considerarsi una iniziativa che va nella direzione giusta?“Tra tutte le esperienze realizzate l’esempio più avanzato è quello della città di Venlo, nei Paesi Bassi, dove la qualità dell’aria indoor degli edifici è eccellente e le facciate sono realizzate con materiali che puliscono l’aria. C’è poi il business Park 2020 a Haarlemmermeer, vicino ad Amsterdam, a cui ho lavorato con William McDonough: è un insediamento unico al mondo, ispirato a garantire il benessere delle persone, che combina l’ecodesign con prodotti innovativi certificati ‘Cradle to Cradle’ (C2C). Inoltre, nella città svedese di Ronneby, insieme a un pool di architetti locali ho contribuito a trasformare una vasta area industriale dismessa in un quartiere concepito in base ai criteri C2C, dove tutto, dalle scuole materne in su, è pensato e progettato in termini di positività, di benessere, non di riduzione del danno, di less bad. Quanto all’esperienza di New York, ha avuto di sicuro l’effetto di creare orgoglio di comunità e la soddisfazione di abbellire la propria città. Ma in termini di miglioramento della qualità ambientale l’impatto è insignificante.”
Lei esorta a non demonizzare la carbon footprint umana e a passare al concetto di human carbon footprint positiva. Cosa comportano, nella pratica, questo passaggio e la sostituzione dell’approccio carbon neutral con quello carbon positive?
“Carbon neutral è un concetto abbastanza assurdo: solo al prezzo di non esistere possiamo essere carbon neutral. Prendiamo di nuovo come riferimento gli alberi: non sono carbon neutral, ma carbon positive; non sono climate neutral, bensì climate positive. Perché non cerchiamo anche noi di fare del bene all’ambiente e al clima estraendo carbonio dall’atmosfera? Oggi invece succede il contrario: enormi estensioni di terre fertili sono impiegate per la coltivazione di biocombustibili. E ogni anno consumiamo inaudite quantità di suolo, che invece è un eccellente sequestratore di carbonio. Solo rigenerare il suolo ha un effetto benefico, solo fissare il carbonio nel suolo è carbon positive. Grazie all’immensa quantità di input energetici di cui disponiamo, potremmo agire positivamente per catturare la CO2 presente in atmosfera e, con l’ausilio dell’energia solare, trasformarla in metanolo, da impiegare come carburante. E dal momento che la CO2 verrebbe sottoposta a un processo di trasformazione, non sarebbe più dispersa in atmosfera. Questo significa essere carbon positive: ridurre permanentemente la concentrazione della CO2 in atmosfera. In altri termini, dobbiamo fare la cosa giusta, non la cosa meno sbagliata, e sentirci in partnership con il mondo naturale, non in colpa.”
Perché ritiene sbagliato l’approccio “Zero Waste”, un must consolidato nell’ambito dell’economia circolare convenzionalmente intesa?
“Minimizzare i danni e la quantità di rifiuti che produciamo non serve a proteggere attivamente, positivamente, l’ambiente: tutt’al più ci aiuta a tagliare la nostra bolletta energetica. Che senso ha definire la sostenibilità, come si legge nel Rapporto Brundtland, come la via per soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere il soddisfacimento dei bisogni di quelle future? Che tristezza! Dobbiamo puntare a fare il bene degli altri esseri umani, dei bambini, dei giovani, che vogliono essere presi sul serio oggi, altro che non vedere compromessi i loro bisogni di domani. ‘Zero Waste’ è una prospettiva che sta agli antipodi di ‘Cradle to Cradle’ perché è un approccio all’insegna della negatività e implica il continuare a ragionare in termini di rifiuti. Se io le dicessi: “Non pensi ai coccodrilli rosa”, automaticamente nella sua mente si formerebbe l’immagine di un coccodrillo rosa. Si fabbricano mattoni che al loro interno contengono ceneri tossiche da riciclo e si parla di economia circolare! L’approccio ‘Cradle to Cradle’ elimina il concetto stesso di rifiuto: solo gli esseri umani producono rifiuti, nessun altra specie vivente lo fa, perché in natura tutto si trasforma in nutrienti utili alla vita di altre specie. Se un prodotto è dannoso per la salute o dopo l’uso diventa un rifiuto e/o non può essere smontato per recuperarne le varie componenti, vuol dire che all’origine c’è un deficit di innovazione e di qualità: non c’entrano l’etica e la responsabilità verso l’ambiente. Analogamente, non dobbiamo vivere per definizione il ruolo di consumatori con perenni sensi di colpa, ma considerarci agenti del cambiamento: una lavatrice che dura trent’anni è un incubo, perché impedisce all’innovazione tecnologica di arrivare sul mercato. Più in generale, ancora una volta si tratta di una questione culturale. In Germania, in Italia, ci si sente colpevoli per i danni arrecati a Madre-Natura, come un bambino che si pente di aver fatto arrabbiare la mamma che invece è tanto buona con lui; e ci si chiede se quello che si fa sia eticamente corretto o meno. In Olanda, invece, dove la metà del paese è sotto il livello del mare e il rischio di inondazioni concreto, l’approccio culturale alla natura non è così romantico. La natura può farci da maestra, non da madre.”
Ci sono leve che possono spingere più di altre nella direzione C2C?
“La più importante è il public procurement che vale ogni anno miliardi di euro nei bilanci dei Paesi: è cruciale che gli acquisti pubblici favoriscano prodotti C2C, per cui occorre lavorare seriamente per definire linee-guida di public procurement che vadano in questa direzione. Questa leva può anche servire a sostenere l’economia locale. Il secondo fattore fondamentale è prendere sul serio l’economia di mercato e sostenere le opportunità offerte dalla digitalizzazione. Non serve fare la Lca di un prodotto come se dovesse durare in eterno. Dobbiamo invece definire il periodo di usabilità di un bene, e passare dalla vendita, per esempio, di una lavatrice, alla vendita di un determinato numero di cicli di lavaggio. È questa la chiave dell’apprendimento e dell’innovazione. Come ho già detto, lavabiancheria che durano 30 anni bloccano l’avanzata sul mercato dell’innovazione tecnologica.”
Non pensa che, in realtà, oggi siamo di fronte al problema di beni progettati per durare pochissimo a causa della cosiddetta obsolescenza programmata?
“Il problema si risolve se, come dicevo, si passa dall’acquisto per esempio di una lavatrice, a quello di un determinato numero di cicli di lavaggio, diciamo 3.000. Questo tipo di elettrodomestico di nuova generazione disporrà di un contatore che parte da 5.000 punti: un lavaggio a 90° varrà 3 punti, a 30° ne varrà 1. In questo modo si sarà indotti a lavare alla temperatura più bassa per risparmiare punti e si avrà cura di riempire il cestello, dal momento che si paga in ragione dei cicli di lavaggio effettuati (pay per wash). A questo punto l’obsolescenza programmata non avrà più alcuna rilevanza, perché la lavatrice deve durare per i 3.000 cicli di lavaggio che ho acquistato. Inoltre, estendere la responsabilità sociale d’impresa impedisce alle aziende di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Perché, per esempio, dovremmo occuparci dello smaltimento, a fine vita, dei pannelli solari cinesi? È un problema che deve riguardare semmai i produttori che sanno con quali materiali li hanno fabbricati.”
Che cosa insegna nel corso “Cradle to Cradle for Innovation and Quality” che tiene alla School of Management dell’Erasmus University di Rotterdam? Si tratta dell’unica cattedra esistente nel panorama accademico mondiale?
“Ho scelto di insegnare in questo istituto perché è una delle Business School pubbliche più quotate in Europa. Nell’ambito del mio corso cerco in prevalenza di mettere a fuoco la convenienza economica del modello industriale ‘Cradle to Cradle’. Al momento è l’unica cattedra universitaria esistente, ma il design concept ‘Cradle to Cradle’ rientra anche in molti curricula di waste management.”
In conclusione, la vision C2C può rischiare, sia pur motivatamente, di alzare l’asticella della sfida all’economia lineare?
“Attenzione: non è una vision astratta da archiviare nel cassetto per i prossimi vent’anni, ma l’opposto della filosofia tradizionale del ‘meno peggio’. E per quanto riguarda la portata della sfida, il cambiamento richiede tempo. Ma ce la possiamo fare. Il mio ufficio si trova in un antico edificio, nel centro storico di Amburgo, dove nel 1762 per la prima volta furono proclamati in lingua tedesca i diritti dell’uomo. Tra questa dichiarazione e l’ottenimento nel 1919 del diritto di voto per le donne ci sono voluti più di 150 anni in Germania. L’antesignano di internet è nato nel 1969, molto prima dell’odierna rivoluzione digitale. La tecnologia solare ci ha messo 60 anni per arrivare sul mercato di massa. Il modello ‘Cradle to Cradle’ ha compiuto 25 anni, eppure sono moltissimi i prodotti con questo marchio. Personalmente sono molto ottimista: appena si comprenderà che ‘meno male’ non significa ‘buono’ ma solo ‘meno peggio’, non si potrà che imboccare la strada C2C.”
E. Bompan, “Al di là del riciclo. Intervista a William McDonough”, Materia rinnovabile n. 6-7, ottobre dicembre 2015; www.materiarinnovabile.it/art/125/Al_di_la_del_riciclo
M. Moro, “Non dimenticare la bellezza. Intervista a Stefano Boeri”, Materia Rinnovabile n. 15, marzo-aprile 2017; www.materiarinnovabile.it/art/300/Non_dimenticare_la_bellezza
Park 2020, www.park2020.com/en