Il tradizionale accostamento della materia ambientale al tema del bene comune induce alcune considerazioni sul possibile inquadramento sistematico dei due argomenti nel contesto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Si tratta di un’operazione non agevole per due ragioni.
Da un lato, è sempre più evidente la tendenza a qualificare come bene comune i contesti più vari e ampi dell’agire umano quali – oltre all’ambiente – la cultura, la scuola, le risorse artistiche, gli spazi urbani, la rete, la giustizia ecc. Fenomeno, questo, coerente con la pluralità dei modi e delle manifestazioni dell’interagire tra le persone, ma che rischia di confinare il concetto di bene comune in uno spazio suggestivo e meramente evocativo, privo di specificità e, sostanzialmente, vago e indistinto.
La teoria giuridica del bene comune
Dall’altro, il dibattito in tema di ambiente ha registrato l’evoluzione dei due elementi fondanti la materia – il valore da conservare (l’ecosistema) e il parametro per assicurare tale conservazione (il cosiddetto sviluppo sostenibile) – nei due concetti di “capitale naturale” e di “economia circolare”, ampiamente discussi in ambito scientifico-economico, ma ancora marginali nella discussione giuridica.
Il primo identifica i beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) e i relativi servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo.
A sua volta, il concetto di “economia circolare” indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”. Si osserva che il postulato di fondo di tale sistema – e cioè che le risorse naturali siano sempre disponibili, accessibili ed eliminabili a basso costo – è prossimo a entrare in crisi e si propone il passaggio a un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati.
I due concetti rappresentano due facce della stessa medaglia.
La centralità attribuita al capitale naturale pone non soltanto il tema dell’inquinamento ambientale, ma soprattutto la questione dell’utilizzo indiscriminato delle risorse naturali e si propone di attribuire un valore reale ai servizi che esse offrono, da tenere presente nelle regole gestionali e di tutela, sia per il settore privato, sia per quello pubblico.
Il passaggio a un’economia circolare mira a concorrere alla realizzazione di tale risultato, attraverso “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” (Comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”).
Individuati i due concetti su cui si è rimodulato il dibattito ambientale, ai fini del loro inquadramento nell’ambito della teoria giuridica del bene comune, occorre partire da una considerazione generale.
La qualifica come “comune”, nelle varie declinazioni, è sempre e comunque attribuita a un bene, un contesto o un servizio per evidenziarne la peculiare valenza rispetto a un aspetto fondamentale della personalità (per esempio, la salute, l’informazione, la partecipazione).
Viene, quindi, enunciato un concetto di relazione, in quanto tale qualifica si nutre del rapporto con l’individuo o, più precisamente, con uno dei vari aspetti della sua personalità riconosciuto quale diritto fondamentale.
Quest’ultimo, in quanto, appunto, fondamentale e non particolare, appartiene a ciascun consociato. È, in altri termini, una caratteristica essenziale della persona, così come costruita dalle Costituzioni delle democrazie avanzate e dalla Carte internazionali fondamentali. E proprio perché patrimonio “comune” a tutti i consociati, altrettanto “comuni” sono i beni che ne permettono la piena realizzazione.
Tale relazione bilaterale bene/individuo, di natura essenzialmente valoriale ed etica, va però riempita di contenuto, in quanto solo con una specifica disciplina che la alimenta e la rende effettiva può assumere rilevanza per l’ordinamento.
Il concetto di “bene comune”, assume, quindi, piena valenza giuridica secondo uno schema articolato su due passaggi.
Il primo ha una funzione ricognitiva della relazione qualificata tra il bene o il servizio e il diritto fondamentale e giustificativa dell’esercizio del diritto stesso nell’ambito del contesto riconosciuto come bene comune, nonché dell’eventuale attribuzione di speciali facoltà a esso inerenti.
Tale primo passaggio ha come oggetto la sola relazione bene comune/diritto fondamentale e, come scopo, l’individuazione della base giuridica che la sostiene. Sono, quindi, a esso estranee la disciplina di dettaglio e la definizione dei rapporti ulteriori, aspetti che, invece, appartengono a un secondo, e altrettanto essenziale, livello sistematico.
E infatti, perché possa definirsi un determinato contesto quale bene comune giuridicamente rilevante, non basta connettere i diritti fondamentali a beni o servizi che ne consentono la piena esplicazione e giustificarne, in base a tale connessione, l’esercizio da parte del titolare. Occorre anche che quella relazione sia disciplinata e/o tutelata da norme specifiche e sia regolata l’attività degli altri attori interessati, oltre al titolare del diritto fondamentale, quali i soggetti che concorrono alla realizzazione o tutela dei beni stessi, o quelli che possono metterli in pericolo, o comunque comprometterne la fruizione collettiva.
John van Nost il Giovane, La Giustizia, Dublino. Foto di J. H. Janßen
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Perché il capitale naturale è un bene comune
Sulla base di tali considerazioni, può affermarsi che il “capitale naturale” costituisce un bene comune giuridicamente rilevante. E infatti, possono individuarsi:
1. una relazione qualificata tra il diritto fondamentale appartenente a ciascun consociato (quello alla salubrità ambientale e alla conservazione del paesaggio) e le risorse naturali che, nell’insieme, costituiscono il capitale naturale;
2. la conseguente giustificazione dell’esercizio del diritto (si pensi all’azione per il risarcimento del danno conseguente a un fatto di inquinamento ambientale, ovvero per ottenere l’inibitoria di attività pericolose per la salute);
3. l’attribuzione di speciali facoltà inerenti al diritto stesso (in tale prospettiva, vengono in evidenza le attribuzioni – sinteticamente espresse dalla espressione “democrazia ambientale” – in tema di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale, riconosciute dalla nota Convenzione di Aarhus e dalle relative norme nazionali di recepimento, quali, in Italia, la legge n. 108/2001);
4. una articolata disciplina di settore finalizzata dare effettività e tutela a quella relazione e regolare l’attività dei vari soggetti interessati (pubblici e privati).
La conferma che il capitale naturale può essere considerato un bene comune giuridicamente rilevante viene anche da un’altra considerazione.
La teoria giuridica del bene comune individua l’elemento di novità di tale concetto, rispetto al tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, nel fatto che trattasi di nozione che prescinde dalla appartenenza, in quanto ha, quale caratteristica essenziale, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario.
Tale impostazione, proprio in tema di capitale naturale, è stata già anticipata, sia dal legislatore, in settori particolari quale quello degli usi civici (che affonda le sue radici nella storia del feudo e della proprietà collettiva) sia dalla giurisprudenza quando si è trattato di dirimere il dubbio circa la proprietà di beni di uso pubblico quali le valli da pesca della laguna di Venezia (in tal senso, la fondamentale Cassazione Civile a Sezioni Unite n. 3665/2011, secondo cui “dalla applicazione diretta degli artt. 2, 9 e 42 Cost. si ricava il principio della tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento, nell’ambito dello Stato sociale, anche in relazione al paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della proprietà dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che – per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale – devono ritenersi comuni, prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l’aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto a interessi della collettività”).
Protezione bilanciata e protezione integrale dell’ambiente
Una compiuta teoria giuridica del capitale naturale quale bene comune richiede, però, un passaggio ulteriore.
Occorre, infatti, verificare se sia necessario o utile operare, all’interno di tale nozione unitaria, ulteriori classificazioni, stante la pluralità di risorse riconducibili al concetto di capitale naturale e dei relativi servizi ecosistemici. E, in caso di risposta affermativa, interrogarsi su quali siano i criteri di classificazione.
La soluzione sembra essere necessariamente modulare, nel senso che, a seconda della prospettiva da cui si esamina la questione, si può pervenire a classificazioni diversificate (come, per esempio, nel caso di utilizzo dei parametri del servizio erogato, o del contesto territoriale di riferimento, o ancora della risorsa interessata).
Per quanto riguarda l’approccio normativo al tema, la distinzione non può che essere operata in relazione alle tecniche regolatrici della materia.
Vengono, allora, in evidenza le due forme di disciplina delle attività con impatto sul capitale naturale e i relativi servizi ecosistemici, riconducibili alle nozioni di protezione “bilanciata” e “integrale” dell’ambiente.
La prima attiene al versante dell’attività industriale e riguarda l’insieme di strumenti (quali standard, autorizzazioni, quote di emissione, accordi) finalizzati a trovare un punto di equilibrio tra le esigenze della produzione e quelle dell’ambiente. A tale tecnica di protezione ha fatto riferimento la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 85/2013 relativa alla speciale autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’Ilva in forza del Dl n. 207/2012, convertito dalla legge n. 231/2012, qualificata come “lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione”, con la precisazione che “una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni”.
Viene, in tal modo, a essere riconosciuto e legittimato un ambito di tutela del capitale naturale incentrato sulla individuazione di un’area di rischio consentito per l’impresa, rappresentato dall’ambito legittimamente autorizzato, all’interno del quale l’ordinamento “tollera”, entro limiti predeterminati, forme di aggressione all’ambiente.
Tolleranza, questa, che si fonda sul riconoscimento, come ragionevole, del “bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, atteso che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (così la sentenza Ilva cit.).
La nozione di protezione “integrale”, invece, è stata enunciata nella materia delle aree protette, la cui delimitazione risponde all’esigenza di protezione integrale del territorio e dell’ecosistema con la conseguenza che “ogni attività umana di trasformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta, va valutata in relazione alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo, sicché in relazione all’utilizzazione economica delle aree protette non dovrebbe parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell’ecosistema compatibile con esigenza di protezione, ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile, intendendosi con tale terminologia evocare i vantaggi economici che la protezione in sé assicura senza compromissione di equilibri economici essenziali per la collettività, e ammettere il coordinamento fra interesse alla protezione integrale e altri interessi solo negli stretti limiti in cui l’utilizzazione del parco non alteri in modo significativo il complesso dei beni compresi nell’area protetta” (Cons. Stato, sez. VI, n. 1269/2007).
Risulta, quindi, chiara l’inversione di prospettiva rispetto alla protezione “bilanciata”: non si parte dall’impresa per regolarne l’attività entro limiti di rischio consentito, ma si ha come riferimento fondamentale il patrimonio dell’area protetta, rispetto al quale ogni iniziativa economica deve recedere, essendo consentito lo svolgimento soltanto di quelle compatibili.
In tal caso può anche parlarsi di protezione “prevalente”, proprio perché nessuna mediazione viene attuata: tutto il sistema è incentrato sulla assolutezza e primarietà del patrimonio dell’area naturale e sulla ricerca e attuazione di strumenti per la sua conservazione.
Caratteristiche di tale diversa forma di tutela ambientale, che può estendersi anche alla tutela del paesaggio, quale sintesi di valori culturali ed estetici che esprimono la bellezza naturale dei luoghi protetti, sono quindi:
- la limitazione territoriale, sia perché soltanto in zone ben determinate sono presenti particolari valori naturalistici, sia perché il sistema economico non potrebbe tollerare una limitazione generalizzata e totale;
- una organizzazione autonoma per la gestione dell’area protetta, svincolata da legami e condizionamenti da parte dei soggetti (tecnici e politici) che gestiscono altre zone del territorio;
- la presenza di strumenti forti di pianificazione e gestione.
A ben vedere, però, queste due forme di protezione del capitale naturale e dei relativi servizi ecosistemici integrano una forma di tutela diretta delle risorse naturali, mediante l’individuazione:
- nella protezione “bilanciata”, di limiti all’attività di impresa al fine di contenerne l’impatto sull’ambiente (sia in termini qualitativi, nella materia dell’inquinamento di origine industriale, sia in termini quantitativi, per quanto riguarda il consumo diretto di risorse naturali);
- nella protezione “integrale”, di forme di tutela speciale dei servizi ecosistemici forniti all’interno di contesti specifici e limitati, in ragione della loro peculiarità (il parco e il paesaggio).
Il terzo pilastro della tutela
Al contrario, l’economia circolare, proponendo un modello di sviluppo incentrato sulla valorizzazione della qualità dei prodotti in funzione della durata della loro vita, sul loro riutilizzo, sulla prevenzione della formazione dei rifiuti e, comunque, sul loro recupero, configura una forma di tutela indiretta del capitale naturale, in quanto attuata mediante un sistema economico, sostitutivo di quello tradizionale, che crei le condizioni per limitare al minimo l’utilizzo delle risorse non rinnovabili.
L’economia circolare, quindi, non costituisce un bene comune, poiché tale qualifica spetta al capitale naturale, ma identifica il terzo pilastro su cui si fonda la tutela dello stesso e delle sue risorse, in aggiunta a quelli della protezione integrale e bilanciata.
Viene, infatti, configurato un diverso sistema economico, i cui attori non svolgono attività “aggressive” per l’ambiente, ma producono beni con caratteristiche di durata e suscettibili di adeguato riutilizzo, ovvero si occupano del recupero di rifiuti derivanti da tali beni.
L’interesse aziendale, allora, sostanzialmente coincide con quello ambientale.
Si giustificano, quindi, la prevalenza di strumenti volontari, il maggior valore attribuito ad accordi, incentivazioni (procedurali o fiscali), la attenuazione del livello sanzionatorio, a fronte della preferenza per forme di responsabilità finanziaria.
Emblematica, in questa prospettiva, è l’evoluzione dei sistemi collettivi che operano su diversi flussi di rifiuti, istituiti in riferimento alla responsabilità estesa del produttore (in Italia corrispondono sostanzialmente al sistema dei consorzi nazionali per il riciclo).
Si è, in tal caso, in presenza di imprese private e, quindi, naturalmente orientate al profitto, che però si organizzano per assolvere una funzione di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato.
Si tratta di una tecnica regolatrice coerente con l’inquadramento sistematico dell’economia circolare quale terzo pilastro della protezione dell’ambiente e con la natura indiretta di tale protezione.
Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore.
Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, nell’economia circolare, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto.
È, questo, il dato distintivo con la tecnica di protezione bilanciata che, invece, si incentra di regola sulla imposizione di stringenti obblighi gestionali, vincolati e precostituiti in ogni profilo.
La previsione di una sfera di autonomia decisionale, sia pure vincolata nel risultato, con l’attribuzione ai sistemi collettivi di un ruolo attivo nella determinazione delle regole e delle procedure, ha, infine, ricadute sulla nozione di democrazia ambientale.
E infatti, per effetto di tale previsione, il diritto di partecipazione ai processi decisionali in materia di ambiente, parte fondante della democrazia ambientale, non si esplica più soltanto nella mera consultazione non vincolante delle comunità interessate ai fini della adozione di determinai piani e progetti, ma implica una vera e propria partecipazione attiva al processo definitorio del “modo” di funzionamento di importanti settori dell’economia circolare.
Si assiste, quindi, all’emersione di una sorta di “coamministrazione” pubblico/privato, impostazione che rappresenta un ragionevole punto di equilibrio tra la pluralità di proposte, in materia di beni comuni, sulla funzione della parte pubblica, in quanto si colloca a metà tra una soluzione che ipotizza un ruolo di mera autorità regolatrice, in un contesto di laissez-faire alle regole del mercato e un’altra che, sul versante opposto, le affida poteri forti ed esclusivi, sulla falsariga di esperienze di “socialismo reale” già negativamente sperimentate in passato (ed è in tale contesto che è stato recentemente teorizzato il cosiddetto “benicomunismo”).
Per esplicazioni sulla teoria della protezione integrale dell’ambiente quale elemento distintivo della disciplina delle aree protette vedi G. Di Plinio, P. Fimiani (a cura di), Aree naturali protette. Diritto ed economia, Giuffrè, Milano 2008, cap. 1, 5 e 8.