Quest’anno l’Italia è co-organizzatrice insieme al Regno Unito della COP26 un’occasione da non sprecare per promuovere azioni concrete ed efficaci per affrontare l’emergenza climatica. Ma secondo membri della società civile, incluse associazioni ambientaliste e gruppi di esperti su clima e energia, le azioni del governo Italiano e le decisioni di politica aziendale di ENI, una delle più grandi società energetiche italiane partecipata dello Stato, sono insufficienti per rispettare gli impegni sottoscritti con l’Accordo di Parigi. Per questo lo Stato Italiano è stato citato in giudizio con l’accusa di essere responsabile d’inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica ed ENI ha ricevuto due diffide legali ad adeguare le proprie attività e procedere verso la decarbonizzazione nella produzione energetica, pena la citazione in giudizio. Azioni legali per il clima sono già state celebrate in Europa e nel mondo, ma è la prima volta per l’Italia.

Politiche climatiche italiane insufficienti

Il rapporto Obiettivi e politiche climatiche dell’Italia in conformità all’Accordo di Parigi e alle valutazioni di Equity globale, pubblicato nel marzo 2021 dall’istituto no-profit Climate Analytics, esamina gli obiettivi di riduzione di emissioni di gas serra dell’Italia indicati nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) e rileva che il nostro paese “è lontano dal dare un giusto contributo alla riduzione delle emissioni necessaria entro il 2030 per raggiungere l’obiettivo a lungo termine definito dall’Accordo di Parigi”, ovvero di contenere il riscaldamento terreste entro 2˚C e di fare tutto il possibile per restare sotto 1,5˚C in più rispetto all’epoca pre-industriale. Secondo l’analisi, “l’attuale obiettivo climatico dell’Italia rappresenta un livello di ambizione così basso che, se altri paesi dovessero seguirlo, porterebbe probabilmente a un riscaldamento globale senza precedenti di oltre 3˚C entro la fine del secolo.”
Crediamo che sia necessario agire con urgenza a 360 gradi assieme a tutti gli attori, istituzioni, aziende private, società civile, perché non abbiamo più tempo” dice a Materia Rinnovabile Marirosa Iannelli, coordinatrice della sezione Clima e Advocacy di Italian Climate Network (ICN). “Contenere il riscaldamento terrestre entro 1,5 o 2˚C sono due scenari molto diversi. Dobbiamo lavorare per rimanere entro 1,5˚C con tutti gli strumenti giuridici a disposizione e vincolare le azioni dei governi a concretizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Per questo è necessario alzare l’ambizione del PNIEC e del PNRR e seguire meticolosamente gli strumenti europei come la carbon tax e le indicazioni del Next generation EU”.

Lo Stato italiano citato in giudizio per inadempienza climatica

Il rapporto è stato commissionato da A Sud, organizzazione che ha coordinato la Campagna Giudizio Universale , all’interno della quale è stata promossa la prima causa legale contro lo Stato Italiano per inadempienza climatica. La causa legale, curata dall’avvocato Luca Saltalamacchia, l’avvocato Raffaele Cesari e dal Prof. Avv. Michele Carducci, è stata depositata il 5 giugno da più di 200 ricorrenti, tra cui 162 adulti, 17 minori e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani. “L’obiettivo dell’iniziativa legale consiste nel chiedere al Tribunale civile una pronuncia che imponga l’adozione di decisioni statali di riduzione delle emissioni di gas serra, in grado di rendere definitiva la stabilità climatica e contestualmente garantire la tutela effettiva dei diritti umani per le presenti e future generazioni, in conformità con il dovere costituzionale di solidarietà e con quello internazionale di equità tra gli Stati”, si legge sul sito della campagna. In particolare, le principali richieste al giudice sono: dichiarare che lo Stato Italiano è responsabile d’inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica e condannare lo Stato a ridurre le emissioni di gas serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. La richiesta di ridurre le emissioni del 92% è stata calcolata tenendo conto del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo nella risposta ai cambiamenti climatici, principio iscritto nella Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici del 1992 (UNFCCC) che prevede che chi ha inquinato di più debba adesso fare uno sforzo maggiore per ridurre le emissioni. La prima udienza del processo, se non sarà rimandata, sarà il 5 novembre, durante i giorni della COP26.

Il successo dei contenziosi climatici in Europa

Il sempre maggiore ricorso allo strumento del contenzioso legale in un numero crescente di paesi del mondo indica che la via giudiziaria alla battaglia climatica ha davvero la possibilità di aumentare l'efficacia delle rivendicazioni di diritti legati al clima”, spiega a Materia Rinnovabile Marica di Pierri, portavoce di A Sud. “Per questo abbiamo deciso due anni fa di lavorare per lanciare la prima causa climatica contro lo Stato italiano. Siamo parte di un movimento globale che speriamo cresca e si moltiplichi sempre più, in Europa come negli altri continenti".
Organizzazioni e gruppi di cittadini, inclusi molti giovani, hanno fatto causa a diversi stati in Europa, come Olanda, Francia, Irlanda e Germania, ottenendo sentenze che in alcuni casi hanno obbligato i governi di questi paesi a rivedere al rialzo le proprie strategie climatiche. Come in Germania dove a seguito del contenzioso climatico il governo tedesco ha rivisto i propri obiettivi di riduzione delle emissioni, passando dal 55% entro il 2030, a un obiettivo di riduzione delle emissioni del 65% entro il 2030 e anticipando la neutralità climatica al 2045 invece che al 2050.

Gli investimenti di ENI nel gas naturale rischiano di far saltare gli obiettivi climatici dell’Italia

Il rapporto Net Zero by 2050 prodotto dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) su richiesta della presidenza del Regno Unito alla COP26 per essere usato come base per le discussioni di novembre, traccia una roadmap per arrivare ad una economia decarbonizzata nel 2050 e cercare di contenere il riscaldamento terreste entro 1,5˚C. Secondo l’IEA la strada da percorrere è stretta, ma ancora possibile, tramite: zero investimenti su fonti fossili (carbone, petrolio e gas naturale) dal 2022, accelerazione su rinnovabili (soprattutto solare e eolico), e riduzione del consumo energetico. “Alcune grandi compagnie petrolifere hanno ridotto gli investimenti nel fossile di ben 87 miliardi di dollari nel 2020, mentre ENI continua a investire soldi sul gas naturale. Total ha un programma di produzione di 100 GW di energia rinnovabile al 2030 e BP di 50 GW, invece ENI è ferma a 15 GW ed il suo obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra del 25% al 2030 è molto al disotto al di sotto dell’obiettivo concordato dal Consiglio europeo del 50%”, dice a Materia Rinnovabile Massimo Scalia, ricercatore presso il Centro interuniversitario per la ricerca sullo sviluppo sostenibile e uno dei quattro veterani dell’energiache negli anni ’80 hanno disegnato il sistema energetico italiano.

Due diffide legali chiedono a ENI di abbandonare il gas naturale e investire nelle rinnovabili

Assieme ad altri 10 docenti universitari, ricercatori ed esponenti di associazioni ambientaliste, Massimo Scalia è uno dei firmatari di una diffida legale inviata a ENI il 22 Giugno 2021 nella quale si richiede alla multinazionale “in quanto grande Società energetica italiana partecipata dallo Stato, di impiegare le sue imponenti risorse per gli obiettivi ambientali e climatici – il 55% di riduzione dei gas serra al 2030 – sia in rapporto a Next Generation EU (il 37% dei fondi va ad obiettivi climatici, non a generici ‘progetti verdi’) che alla raccomandazione UE di realizzare il 40% degli obiettivi entro il 2025” e “non danneggiare la salute dei cittadini, perpetuando il ricorso ai combustibili fossili, e la ripresa economica resa possibile dall’occasione unica del Recovery Fund, oltre che le sue stesse capacità di concorrenza sul mercato con una resistenza al cambiamento, peraltro di corto respiro.”
“Da
aprile in poi – racconta Massimo Scalia - abbiamo scritto tre volte al Presidente del Consiglio Draghi spiegando puntualmente le criticità presenti nel PNRR https://bit.ly/3ymyXE0 per quello che riguarda il settore dell’energia. Avendo individuato come le politiche di ENI rappresentino un tentativo di resistenza del mondo fossile, come ad esempio il progetto di Carbon Capture and Storage (CSS) di Ravenna, abbiamo indicato come le scelte della dirigenza di ENI possano compromettere il PNRR ed essere un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Italia. Oltre a danneggiare la salute dei cittadini, ENI fa del male anche a se stessa, perché se una grande compagnia Oil and gas non si ristruttura e non passa alle rinnovabili non riuscirà a stare sul mercato” dice Scalia.
Una
seconda diffida legale è stata inviata ad ENI il 26 luglio 2021 dalla "Rete Legalità per il Clima". Preparata dal gruppo di giuristi che hanno curato la redazione dell’atto di giudizio contro lo Stato italiano nell’ambito della campagna Giudizio Universale, la diffida mette in evidenza come Eni sia consapevole dell’emergenza climatica, documenta come la multinazionale abbia contribuito al riscaldamento climatico in corso e, nonostante questo, le azioni pianificate nel piano strategico Eni spa 2021-2024 siano insufficienti per un vero processo di decarbonizzazione.

Le emissioni di ENI superano quelle totali dell’Italia

Tra le criticità del piano strategico di ENI riportate nella diffida della Rete per la legalità climatica sono elencati: aumento immediato delle emissioni di gas serra; tempistica inadeguata, con parte più cospicua della decarbonizzazione postiticipata a dopo il 2030 e ipotizzata tramite tecnologie di cui ancora a oggi non è stata provata l’efficacia, come la cattura e stoccaggio di CO2 (Carbon Capture and Storage – CCS), o insostenibili dal punto di vista ambientale e climatico, come la produzione di idrogeno blu (prodotto da fonti fossili incorporando nel processo la cattura delle emissioni rilasciate); utilizzo marginale delle fonti rinnovabili. Tramite queste azioni ENI spa “sta contribuendo da decenni all’aggravamento della stabilità del sistema climatico” e minaccia “il godimento dei diritti fondamentali”.
Secondo i calcoli riportati nella diffida “ENI spa, per effetto delle sue attività sparse nel mondo, ha emesso complessivamente una quantità di gas serra superiore a quella dello Stato Italiano: circa 537 milioni di tonnellate di CO2-eq rispetto a circa le 428 prodotte in Italia” e nel piano strategico di ENI non è prevista una vera “decarbonizzazione”, cioè riduzione delle emissioni di gas serra, ma una loro futura “neutralizzazione” tramite tecnologie molto discusse come il CCS (recentemente la Regione Emilia Romagna ha negato l’attribuzione di finanziamenti europei per la ricerca al progetto di ENI di CCS a Ravenna).
La diffida legale della Rete Legalità per il clima chiede tre cose ad ENI: abbattere le proprie emissioni di gas serra, dirette e indirette, ad un livello compatibile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi; abbandonare, entro e non oltre il 2022, qualsiasi finanziamento al fossile; escludere la produzione di idrogeno blu. ENI è invitata a deliberare quanto sopra entro il 10/11/21, in mancanza, sarà citata in giudizio. “Con la diffida abbiamo inviato a ENI un avvertimento. Se non avremo riscontro promuoveremo ogni conseguente iniziativa legale, investendo della questione gli organi giurisdizionali nella consapevolezza che il diritto, al pari di alti strumenti, può essere utilizzato come strumento di trasformazione progressiva della realtà”, spiega a Materia Rinnovabile l’avvocato Raffaele Cesari.

La risposta di ENI

Materia Rinnovabile ha chiesto a ENI se la direzione dell’azienda abbia deciso come rispondere alle due diffide che le sono arrivate e se il piano strategico di ENI sarà rivisto per essere in conformità con gli obiettivi dell'accordo di Parigi. Le risposte sono arrivate tramite email: "ENI ha preso atto delle diffide e sta analizzando con cura i documenti in ogni singola affermazione. In ogni caso, ENI conferma di aver elaborato una strategia che la porterà al completo abbattimento delle emissioni nette di processi industriali e prodotti al 2050, articolata su obiettivi intermedi comunicati al mercato e basata su una metodologia di stima delle emissioni elaborata anche con il contributo di esperti del mondo accademico. Un impianto strategico che ha anche meritato il primo posto nella classifica dell’autorevole think thank Carbon Tracker.”
Un’analisi di Carbon Tracker sui piani di emissione di 10 compagnie oil and gas, tra cui Eni, confronta gli obiettivi di riduzione delle diverse aziende e discute dell’impiego di tecnologie per la compensazione delle emissioni (come la Carbon Capture and Storage, CCS, e le Nature-Based Solutions, NBS, cioè piantare e proteggere foreste e altri ecosistemi naturali in grado di stoccare carbonio) nel calcolo del bilancio delle emissioni di ciascuna azienda. Carbon Tracker mette in guardia dal pericolo di un’eccessiva dipendenza dalla compensazione delle emissioni, che potrebbe rivelarsi minore di quanto previsto, rispetto a un taglio diretto delle emissioni stesse (cioè decarbonizzazione). Secondo il think thank, attuare un approccio più conservativo e meno rischioso, aiuterebbe ad aumentare la credibilità delle aziende stesse agli occhi degli investitori e dei società civile.

Shell e le multinazionali del fossile condannate in altri paesi europei

ENI spa è detenuta al 30% dallo Stato Italiano e il Ministero dell’Economia e delle Finanze ne ha di fatto il controllo in forza della partecipazione detenuta sia direttamente sia attraverso Cassa Depositi e Prestiti SpA. Per questo motivo le azioni di ENI coinvolgono anche lo Stato italiano. Massimo Scalia racconta che quando il gruppo di docenti universitari, ricercatori e esponenti di associazioni ambientaliste ha inviato la diffida del 22 Giugno a ENI ne hanno fatto pervenire copia anche al Presidente del Consiglio Mario Draghi, e ai ministri competenti, Giorgetti, Cingolani, Franco e Giovannini. In quell’occasione, delle interrogazioni al Senato e alla Camera sulle scelte energetiche di Eni sono state presentate dalla senatrice Loredana De Petris e dall’onorevole Rossella Muroni.
In Francia l’associazione Notre Affaire à Tous, ricorrente anche contro lo Stato francese per inadempienza climatica, ha citato in giudizio la multinazionale Total, mentre in Olanda il tribunale dell’Aja ha dato ragione al gruppo Milieudefensie di Friends of the Earth che aveva fatto ricorso contro la multinazionale fossile Royal Dutch Shell, condannata a ridurre del 45% le sue emissioni entro il 2030. Shell ha detto che farà ricorso, ma la decisione del tribunale la obbliga comunque ad attivarsi per ridurre le emissioni da subito. Secondo gli osservatori, la condanna di Shell è un punto di svolta nei contenziosi climatici perché riconoscendo la responsabilità delle imprese multinazionali del fossile nel determinare il cambiamento climatico potrebbe influenzare le giurisprudenze di altri paesi a prendere decisioni simili.

ENI, la libertà di stampa e la transizione ecologica

Da anni le attività estrattive di ENI e i loro impatti negativi sul clima e sulla salute delle persone sono denunciate da numerose organizzazioni della società civile, che vanno da associazioni ambientaliste storiche, come Legambiente, Greenpeace, A Sud, Italian Climate Network, fino a gruppi di attivisti formatisi più di recente, come i Fridays for Future ed Extinction Rebellion.
In questi ultimi giorni c’è un altro segnale che desta preoccupazione e riguarda
la libertà di stampa nel nostro paese: ENI ha indirizzato al quotidiano Domani una diffida dove, riservandosi comunque la possibilità in futuro di sporgere querela, chiede nel frattempo il versamento via bonifico bancario di 100 mila euro entro 10 giorni per presunti danni reputazionali quale indennizzo per un articolo considerato diffamatorio, dove si riportavano dettagli riguardo al processo di corruzione per l’acquisto di un giacimento petrolifero in Nigeria nei quali ENI era sotto accusa (ENI, il suo amministratore delegato Claudio Descalzi e Shell sono stati dichiarati innocenti. L’accusa ha fatto ricorso in appello). Questa richiesta di risarcimento avanzata prima del giudizio di una corte è considerata da molti come una prassi intimidatoria, simile alle SLAPP, le Strategic lawsuit against public participation, praticate negli Stati Uniti da grandi imprese al fine di stroncare le voci critiche costringendole a fronteggiare spese legali insostenibili. La Federazione Nazionale Stampa Italiana la definisce come “un caso esemplare di querela bavaglio, ma al momento un disegno di legge sulle liti temerarie presentato nel 2018 dal Senatore e giornalista Primo di Nicola non è ancora stato discusso.
Materia Rinnovabile ha chiesto a ENI se l’azienda ritiene che la diffida inviata al quotidiano Domani possa rappresentare un attentato alla libertà di stampa. La risposta è arrivata via email: "ENI rispetta in modo incondizionato la libertà di stampa. Ma libertà di stampa non significa aggredire pervicacemente e senza argomenti sostanziali la reputazione di imprese e persone. Questa è diffamazione. Sono quasi tre anni che l’azienda è oggetto di fortissimi attacchi mediatici da parte di alcuni organi di stampa, a sé stessa e alle proprie persone, su fatti che un Tribunale della Repubblica ha poi giudicato inesistenti (l'azienda e i suoi manager sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”). E non per questo l’azienda si è mossa per via giudiziaria: ha replicato, punto per punto, ogni volta, con pazienza, difendendosi a mezzo stampa.”
Alla camera dei deputati e al Senato sono state depositate due interrogazioni parlamentari, rispettivamente dagli onorevoli Rossella Muroni e Lorenzo Fioramonti e dalla senatrice Loredana de Petris, per chiedere ai Ministri dell’Economia e delle finanze e dello Sviluppo economico di spiegare la richiesta di ENI. Nel futuro, sempre di più ENI sarà chiamata a rispondere delle sue scelte strategiche in tema di produzione energetica e degli impatti delle sue attività sul sistema climatico e la salute delle persone. Come risponderà la grande multinazionale controllata dello Stato? Che futuro c’è per la transizione ecologica in Italia?