Abbiamo incontrato il professor Hans Bruyninckx durante il Wcef 2019 che ha riunito pensatori e attori fondamentali dell’economia circolare provenienti da tutto il mondo. Ci ha raccontato come l’Eea (Agenzia europea dell’ambiente) stia fornendo informazioni accurate e indipendenti per aiutare decisori politici e non a ingrandire la scala dello sviluppo sostenibile. La sua peculiare competenza nella ricerca orientata all’ideazione di politiche in tema di ambiente, cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile ci permette di analizzare lo stato attuale e la direzione futura dell’economia circolare e della bioeconomia.

 

La prima domanda è di carattere generale sulla situazione dei rifiuti in Europa. In base alla sua esperienza quali risultano essere le principali sfide, specialmente per l’Ue, per una gestione circolare dei rifiuti?

“Prima di tutto non dovremmo assimilare il concetto di rifiuti con quello di economia circolare. Voglio dire che l’essenza dell’economia circolare è che i rifiuti diventano tali solo se li si butta via. Grazie alla legislazione abbiamo visto notevoli progressi in Europa nella separazione dei rifiuti e, in alcuni paesi, anche nella quantità pro capite di rifiuti prodotti. Ma nello stesso tempo vedo un’attuazione e un rispetto delle leggi europee molto diversi. L’attuale gestione dei rifiuti prevede: sotterrarli; bruciarli; bruciarli per produrre energia; e infine riciclarli. Ci sono ancora paesi in cui l’interramento è un’opzione importante, altri in cui lo è l’incenerimento, persino senza un sistema soddisfacente per catturarne energia ed emissioni. Quindi c’è ancora molta strada da fare. Un altro problema è che esportiamo buona parte dei nostri rifiuti. Per esempio in Europa viene davvero riciclato solo il 30% delle plastiche mentre la gran parte è riciclata al di fuori dell’Europa. Quindi, sebbene si tratti di un quadro molto variegato, possiamo dire che in generale in Europa c’è un rispetto delle norme disomogeneo. E ci sono ancora molti luoghi in cui è necessario migliorare significativamente la gestione dei rifiuti dallo smaltimento in discarica all’incenerimento, all’incenerimento con recupero del potenziale calorico fino al riuso e al riciclo.”

 

L’Eea ha svolto delle ricerche sull’incenerimento con generazione di energia. Di cosa ha bisogno l’Europa per raggiungere la piena efficienza in questo settore?

“In alcune città come Copenaghen, in Danimarca, dove abbiamo la nostra sede, l’incenerimento dei rifiuti è legato a un sistema ben congegnato di riscaldamento dei quartieri della città con tubature altamente efficienti che hanno minime dispersioni di calore. Si tratta di un buon esempio di come si possano bruciare rifiuti senza produrre inquinamento atmosferico o rimanendo ben al di sotto delle soglie stabilite grazie a sistemi di filtraggio efficienti. Ma è difficile immaginare di realizzarlo ovunque in Europa. Ci sono infatti paesi che hanno sistemi per il recupero del calore molto meno efficienti o che semplicemente bruciano i rifiuti senza recuperare calore. C’è di tutto: penso che gli stati membri dovrebbero riflettere su quali investimenti sia meglio fare, su cosa sia necessario e su come migliorare la gestione dei rifiuti.”

 

Quale impatto effettivo può avere l’economia circolare sulle emissioni di CO2 e quanto può contribuire alla decarbonizzazione dell’economia?

“Lo dico in maniera semplice: cosa succederebbe se non passassimo a un’economia circolare e se non proteggessimo la biodiversità che assorbe la maggior parte di CO2 nel ciclo del carbonio delle foreste, degli oceani e di altri ecosistemi? Non potremmo in alcun modo raggiungere l’obiettivo di rimanere ben al di sotto dei 2°C di aumento delle temperature globali. C’è una grande quantità di carbonio integrata nel ciclo dei materiali. Si va da settori ad altissima intensità, come quello della produzione di cemento e alcuni settori petrolchimici, ad altri a intensità minore. Non possiamo neanche sognare di arrivarci se non passiamo a un’economia più circolare o non cominciamo a usare le risorse in maniera più efficiente.”

 

Un tema molto importante è quello della plastica. Non ci sono dati chiari su quanta plastica sia presente nell’ambiente, nel nostro corpo e nel cibo che mangiamo. C’è qualche ricerca sull’impatto e sulla disseminazione delle microplastiche?

“Abbiamo appena pubblicato un rapporto sulla prevenzione dei rifiuti plastici e sulla plastica in una prospettiva di economia circolare. Lavoriamo anche con altri attori sulle microplastiche e sul loro impatto. Sappiamo che le microplastiche sono dannose per gli ecosistemi, per il sistema alimentare e per la nostra salute. Dobbiamo fare qualcosa. L’Europa sta mettendo al bando le plastiche monouso: è un esempio di riduzione. È importante anche migliorare il recupero e il riuso, cosa che evita che la plastica finisca nell’ambiente. Inoltre bisogna pensare agli aspetti fondamentali delle plastiche in modo da renderle innocue ‘a monte’, in modo che se finiscono nella catena alimentare o nel nostro corpo o nell’ambiente, non saranno tossiche e non avranno gli effetti negativi che hanno ora. E naturalmente dobbiamo riflettere su cosa possiamo fare con tutta la plastica che è già in circolazione. E questo comprende le isole di plastica grandi come il Texas o la Francia che galleggiano negli oceani e la plastica dispersa nell’ambiente.”

 

La maggior parte della plastica, come lei sostiene, arriva dagli imballaggi. È possibile limitarne la quantità? 

“Naturalmente è possibile. A partire dalle borse di plastica che usiamo quando facciamo la spesa. Globalmente produciamo 160.000 borse di plastica al secondo, un milione ogni pochi secondi. Usiamo la plastica per avvolgere singolarmente i biscotti e poi li ri-impacchettiamo a gruppi di tre, e poi li avvolgiamo in un pacchetto ancora più grande, per poi mettere il tutto in una scatola, altro materiale per il confezionamento, poi imballiamo con altra plastica gruppi di sei di queste scatole. Naturalmente possiamo, e dobbiamo, fare qualcosa al riguardo.”

 

Attualmente è in corso un intenso dibattito riguardo all’impiego di metriche adeguate che prevedano non solo il riciclo e il riuso dei materiali ma anche la condivisione dei prodotti, l’estensione del loro ciclo di vita e altri aspetti. Come si sta sviluppando il dibattito a riguardo? Ci sono già degli esempi?

“Ci sono alcune buone pratiche che definirei sottodimensionate rispetto all’entità dell’economia e del nostro utilizzo di risorse. Quindi si tratta di stabilire uno standard in questo ambito. Questo riguarda la fiducia dell’opinione pubblica nel monitoraggio e nei resoconti: ci serve un sistema uniforme che abbia superato un controllo di qualità e che permetta di fare paragoni. Bisogna implementarlo nel posto giusto perché queste informazioni abbiano un impatto sulle scelte dei consumatori e dei produttori e, alla fine, riguardi l’innovazione. Dobbiamo essere innovativi nel modo in cui tracciamo e seguiamo i materiali e il loro valore nell’economia. Qualcuno sta pensando alla tecnologia blockchain, altri a dotare i beni con un passaporto dei materiali. Stiamo analizzando questo problema con alcuni pionieri europei, la Finlandia, i Paesi Bassi e un paio di altri per stimolarli a dare impulso a questo tipo di innovazione che deve realizzarsi con misure credibili, trasparenti e applicabili su grande scala. Nell’Ue, e potenzialmente anche al di fuori di essa, riguardo all’utilizzo dei materiali in una prospettiva di economia circolare.”

 

Avete effettuato ricerche sulla valutazione del ciclo di vita di prodotti che non vengono posseduti ma utilizzati come servizio?

“Non abbiamo svolto molte ricerche in questo ambito perché in Europa vige in qualche modo una divisione dei compiti. Nel sistema europeo è più il Centro di ricerca congiunta che è focalizzato su questo aspetto, e ci sono diverse istituzioni di ricerca europee che lo esaminano: tra queste l’istituto fiammingo per la ricerca tecnologica Vito che è il nostro partner principale nel nostro centro dedicato ai materiali di scarto nella green economy.”

 

Quali sarebbero gli impatti se passassimo a una bioeconomia su più vasta scala?

“Credo che se riflettiamo in termini di sistemi e pensiamo ai problemi correlati tra biodiversità, clima e utilizzo delle risorse è evidente che la bioeconomia ha un grande potenziale. Anche l’Europa ha una strategia per la bioeconomia. È possibile immaginare una bioeconomia non circolare né buona per l’ambiente piuttosto dannosa per la biodiversità o una bioeconomia che porti a un reciproco sostegno. Non esiste ‘la bioeconomia’. Noi dobbiamo definire la nostra bioeconomia e dobbiamo essere molto precisi riguardo a dove usiamo le biomasse o la cellulosa o qualsiasi altro materiale biologico in questione per poi passare a un’economia complessivamente più verde. Anche tutto il dibattito sui biocarburanti illustra molto bene questo concetto. C’è posto per le biomasse nel sistema energetico? Sì. Ma devono essere biomasse vergini in competizione con l’uso agricolo del suolo o possono essere biomasse secondarie o addirittura terziarie? Possono essere costituite da alghe? La fonte fa la differenza. E poi bisogna riflettere su dove vengono usate. È una buona idea alimentare con biocarburanti provenienti da biomasse vergini un motore a scoppio che ha, nel migliore dei casi, un’efficienza del 25%, muove un veicolo che pesa una tonnellata e mezza e viene usato mediamente da 1 o 2 persone per fare pochi chilometri? Ci devono essere modi migliori per usare le biomasse all’interno del sistema energetico. Quindi, ancora una volta, non c’è una soluzione ottimale. È necessaria un’attenta analisi del contesto di impiego. Ma è ovvio che il passaggio a soluzioni biobased può essere parte di un sistema economico più verde.”

 

Ci sono sufficienti big data per prendere sagge decisioni a lungo termine?

“Penso che ci siano abbastanza informazioni per poter passare all’azione. Sappiamo dove indica l’ago della bussola: un’economia circolare a basse emissioni di carbonio. Dobbiamo salvaguardare il capitale naturale e pensare alla salute e al benessere delle persone. Sappiamo abbastanza per agire. Sappiamo anche che dobbiamo farlo più velocemente di quanto stiamo facendo ora. Quindi ecco l’urgenza che dobbiamo affrontare. Naturalmente dobbiamo continuare a innovare, a lavorare con le nuove conoscenze acquisite e a migliorarle. Se vogliamo soluzioni che si basino di più sul mondo naturale e una bioeconomia, abbiamo bisogno di una natura più forte. Perché è dal capitale naturale che traiamo benefici e servizi ecosistemici. Ma abbiamo molta strada da fare in termini di innovazione. Recentemente ho partecipato a una conferenza sulla chimica verde presieduta dall’Austria alla quale sono stati invitati giovani scienziati e imprenditori che hanno presentato soluzioni favolose. Per me è ovvio che il vero problema è come stimolare questo nuovo tipo di ricerca fuori dagli schemi e come aiutare i ricercatori ad attraversare la ‘valle della morte’. Un’innovazione che parta dall’inventare qualcosa al commercializzarlo su una scala realizzabile. È questo che dobbiamo supportare. È in questo campo che ci servono forti schemi innovativi che aiutino realmente i nuovi pensatori e i nuovi attori nell’economia dei 21° secolo.”

 

L’Europa sta facendo molto per promuovere l’economia circolare ma sta anche rallentando a causa di molti problemi legali. Lei è attivo nella divulgazione negli stati membri dei dati che li aiutino a prendere decisioni in termini di procedure legislative?

“Siamo un’organizzazione che ha la struttura di un network. Il nostro dna ci porta a lavorare con gli stati membri e con le loro istituzioni. Quindi siamo giornalmente in contatto con loro per stilare i nostri rapporti sull’economia circolare e sulla bioeconomia, sull’efficienza nell’uso delle risorse e sulle politiche intraprese. Nello stesso tempo forniamo un’analisi di queste politiche in modo che possano trarre degli insegnamenti da esse.”

 

Il nord Italia è una delle zone più inquinate d’Europa. Cosa dicono i vostri dati più recenti su questa area?

“Relativamente alla qualità dell’aria abbiamo un sito web dal quale è possibile ricavare i dati degli ultimi 100 giorni riguardo a cinque inquinanti mettendoli a confronto con quelli relativi ad altre zone dell’Europa. Sappiamo che la Val Padana ha problemi con la qualità dell’aria: questo per una combinazione di vari fattori quali la sua ubicazione geografica, l’alta industrializzazione e l’elevata densità abitativa che comporta un traffico costantemente intenso. Sappiamo che il contesto è difficile, ma considerato che in questa zona vivono milioni di persone che hanno lo stesso diritto di tutti gli altri cittadini europei di avere condizioni di vita salutari, bisognerà concentrare lo sforzo sul sistema della mobilità e su alcune industrie pesanti. L’inquinamento industriale in Europa è normato dalla direttiva per le emissioni industriali, che riguarda un ampio numero di aziende, l’1% delle quali produce il 50% dei danni. Quindi si potrebbero realizzare interventi mirati in questo ambito, e non solo in Italia, anche altri paesi hanno contesti non facili dove occorre applicare la stessa strategia.” 

 

Agenzia europea dell’ambiente, www.eea.europa.eu/it

Eea, Report 2/2019. Preventing plastic waste in Europe, www.eea.europa.eu/publications/preventing-plastic-waste-in-europe

Vito, https://vito.be/en

Air Quality Index, www.eea.europa.eu/themes/air/air-quality-index