Messi uno vicino all’altro comporrebbero una linea lunga 125 chilometri, quanto la distanza fra Torino e Genova. Se invece fossero accatastati peserebbero l’equivalente di 350 navi da crociera: sono i rifiuti elettrici ed elettronici (RAEE) prodotti in tutto il mondo nel 2019, secondo i dati contenuti nella terza edizione del Global E-waste Monitor, il report dell’università delle Nazioni Unite (UNU) e dall’International Solid Waste Association (ISWA) pubblicato all’inizio di luglio.
Dagli elettrodomestici ai computer, dagli smartphone alle lampadine, si parla di 53,6 milioni di tonnellate (Mt) di scarti: una media di 7,3 chili a testa per ogni abitante del pianeta, che nel caso degli europei è più che doppia – 16,2 kg – e per gli italiani ancora più alta, 17,2 chili ciascuno.
Credit: Global E-waste Monitor
RAEE nel mondo: il rapporto del Global E-waste Monitor
I numeri contenuti nel documento – spiega una delle autrici del report, la professoressa Vanessa Forti, Programme Associate all’UNU – si basano su stime realizzate “in base al numero dei prodotti elettronici immessi sul mercato ogni anno, registrati dalle statistiche sul commercio mondiale, e su studi che indicano la vita media di ogni prodotto: da questi dati si ricava la quantità di rifiuti di questo tipo generati ogni anno”. Secondo il rapporto, dunque, l’anno scorso i RAEE sono aumentati del 20,7% rispetto al 2014 (quando erano stati 44,4 Mt) e oggi sono la tipologia di rifiuti che ha il tasso di crescita più alto, con una tendenza che nel 2030 li farà arrivare – secondo le previsioni dei ricercatori – a oltre 74 milioni di tonnellate.
A preoccupare sono anche i ritmi: come ha spiegato il presidente di ISWA, Antonis Mavropulos, nel periodo 2014-2019 la produzione di e-waste “è stata tre volte più veloce di quella della popolazione mondiale, e del 13% più rapida rispetto alla crescita del Pil globale”. Le cause sono diverse: dai maggiori consumi di tecnologia (trainati, in molti paesi in via di sviluppo, dal miglioramento delle condizioni economiche di fasce crescenti della popolazione) ai cicli di vita sempre più brevi, fino alla difficoltà o impossibilità di riparazione degli apparecchi. Con il risultato di creare – ha detto ancora Mavropoulos – “una pressione ambientale e sanitaria” che “dimostra l’urgenza di combinare la quarta rivoluzione industriale con l’economia circolare”.
Soprattutto se si guarda a un altro dato: di quei quasi 54 milioni di tonnellate di RAEE, solo il 17,4 per cento vengono raccolti e riciclati seguendo le normative nazionali. Il resto (ben 44,3 Mt) sfugge del tutto alle filiere di recupero e viene smaltito in modo non adeguato – negli Stati Uniti, ad esempio, l’8% dei rifiuti elettronici viene gettato nei normali cassonetti e finisce in discarica o inceneritore – oppure esportato nei paesi in via di sviluppo. Dove spesso, per estrarne i componenti di valore, viene lavorato senza le necessarie misure di sicurezza per proteggersi dalle sostanze pericolose, come il mercurio contenuto negli schermi o nelle lampadine: ogni anno, si legge nel report, almeno 50 Mt di questo materiale seguono flussi non documentati di e-waste.
Il rapporto, infine, mette in luce come il corretto smaltimento potrebbe avere un impatto positivo sia dal punto di vista ambientale che da quello economico. Visto l’attuale tasso di recupero, infatti, ogni anno dall’e-waste vengono estratti 4 Mt di metalli preziosi grezzi (oro, argento, rame, ferro) che possono essere usati in nuovi cicli produttivi, per un valore complessivo di 10 miliardi di dollari. Se tutti i RAEE venissero trattati secondo le giuste procedure, questa cifra potrebbe salire fino a 57 miliardi – un valore superiore al Pil di diversi paesi del mondo – e far risparmiare 15 Mt all’anno di emissioni di CO2 equivalente dovuti all’estrazione di nuovi metalli vergini.
Credit: Global E-waste Monitor
Problemi aperti
La quantità di nuovi rifiuti elettronici prodotti nel mondo aumenta mediamente di circa 2,5 milioni di tonnellate ogni anno, con un tasso di crescita più veloce rispetto al numero di quelli che vengono riciclati. I motivi, racconta Vanessa Forti, sono diversi: innanzitutto l’aumento della produzione di dispositivi nuovi, “che in futuro è difficile che si arresti: la crescita del Pil in molti paesi in via di sviluppo offre a un numero sempre maggiore di persone l’accesso ai prodotti elettronici di base come ad esempio le lavatrici”.
Inoltre, molti RAEE “non si sa ancora bene dove vadano a finire: in parte vengono esportati proprio nei paesi in via di sviluppo con la dicitura ‘second hand’, cioè con l’idea di farli riutilizzare, anche se in diversi casi quando arrivano a destinazione non sono funzionanti perché manca un componente essenziale, ad esempio il cavo di alimentazione, e quindi finiscono nelle discariche”. C’è infine l’aspetto delle politiche di smaltimento: oggi sono solo 78 i paesi del mondo con una legislazione che disciplina il trattamento dei RAEE, un risultato lontano dal 50% che si è dato come obiettivo l’Unione internazionale delle Telecomunicazioni.
Da questo punto di vista, dice Forti, “l’Europa è la regione del mondo con la policy più avanzata, soprattutto grazie alla Direttiva comunitaria 19 del 2012”. Nel nostro continente, infatti, secondo i dati del report ogni anno viene riciclato il 42,5% dell’e-waste prodotto: un valore medio che sfiora l’obiettivo del 45% che era stato fissato dall’Unione Europea (innalzato al 65% a partire dal 2019).
Nella maggior parte dei paesi europei, compreso il nostro, lo smaltimento dei RAEE si basa sul principio EPR (Extended Product Responsibility), che assegna ai fabbricanti la responsabilità dell’intero ciclo di vita di un prodotto. Il sistema è finanziato in parte dalle aziende e in parte dai consumatori, e “questi soldi – continua la professoressa – dovrebbero essere utilizzati non solo per il recupero e il trattamento dei prodotti, ma anche per modificare il loro design in ottica circolare e di riciclo. In realtà, questo passaggio in qualche modo s’inceppa, perché la maggior parte dei produttori di elettronica non hanno sede in Europa, e lungo la filiera degli esportatori e rivenditori la responsabilità si perde”.
A ciò, poi, vanno aggiunte le politiche di molte aziende che rendono sempre più difficile la sostituzione di un solo componente degli apparecchi, accorciandone il ciclo di vita. Anche per questo, spiega Forti, a livello comunitario “si sta spingendo per estendere la garanzia dei prodotti oltre i due anni attuali, per facilitare la riparazione invece dello smaltimento”.
Credit: Global E-waste Monitor
La situazione italiana
Nel nostro paese, la percentuale di raccolta raggiunta l’anno scorso è del 39,5%, tre punti in meno della media europea e anche del dato relativo al 2018, come si legge nel Rapporto Gestione RAEE 2019, diffuso il 29 luglio dal Centro di coordinamento RAEE, il consorzio che si occupa dello smaltimento dei rifiuti elettronici.
“Il dato peggiorativo” del tasso di raccolta, secondo il Centro, è dovuto al fatto che “i quantitativi di RAEE trattati dagli impianti sono cresciuti in maniera inferiore” ai nuovi prodotti immessi sul mercato “nel triennio 2016-2018, la cui media si attesta a 1.173.756 tonnellate (+19% rispetto al triennio precedente)”. Nel 2019, quindi, i 976 impianti di gestione italiani (la maggioranza dei quali si concentra al Nord) hanno trattato poco meno di 464 mila tonnellate di e-waste, il 10,1% in più rispetto all’anno precedente, proveniente per oltre due terzi (76,3%) da usi domestici.
“Siamo sicuramente indietro rispetto agli obiettivi europei – dice il Direttore Generale del consorzio, Filippo Longoni – ma dalle informazioni che abbiamo, quasi nessuno degli stati europei riuscirà a raggiungere quel target. Secondo i dati del primo semestre, poi, la raccolta del 2020, nonostante i due mesi del lockdown, ha superato quella del 2019. Quello del 65% è un traguardo sfidante, per arrivarci bisogna lavorare ancora molto: senza però dimenticare che tra le best practices del settore indicate dall’UE due erano italiane, e una è proprio il Centro di coordinamento”.
Una delle questioni da risolvere, continua il manager, è quella di “rendere la raccolta più omogenea. Oggi in Italia i canali sono due: i centri di raccolta comunali e le catene di vendita dei prodotti, che proprio la direttiva europea ha obbligato a ritirare i rifiuti elettronici. In tutti e due i casi, nelle zone con più infrastrutture la quantità di prodotti destinati a corretto riciclo aumenta. Ci sono ancora regioni, in particolare al Sud, che non offrono a tutti i cittadini la possibilità di conferire i rifiuti, e ciò favorisce la dispersione. Credo che un investimento pubblico per aiutare i comuni a creare punti di raccolta, non solo per i RAEE, sia doveroso e ci aiuterebbe ad avvicinarci agli obiettivi europei”.