L’oceano è il più grande pozzo di carbonio del pianeta, e se gestito in maniera sostenibile può aiutare nella mitigazione e nell’adattamento al cambiamento climatico. Ma la sua capacità di regolare il clima è indebolita dagli impatti diretti e indiretti di vari tipi di attività produttive che ne degradano la salute e determinano ingenti danni economici. Recenti iniziative stanno sviluppando metodologie per misurare gli impatti delle industrie sull’oceano e cercano di indirizzare la finanza verso investimenti per una Blue Economy sostenibile.
Il grande regolatore del clima
L’oceano ricopre il 71% della pianeta e ha un ruolo primario nella regolazione del clima terrestre. Ha assorbito un terzo dell’anidride carbonica generata dalle attività umane e oltre il 90% del calore in eccesso trattenuto nell’atmosfera a causa dell’aumento dell’effetto serra. Dalle alghe unicellulari al carbonio blu (mangrovie, zone umide e praterie di piante marine) e ai mammiferi marini, l’oceano fornisce una serie di risorse naturali per promuovere la biodiversità e catturare il carbonio. L’oceano è il motore del sistema climatico terrestre, e senza un oceano in salute non è possibile raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e contenere la temperatura entro 1,5°C, neanche se alla COP26 di Glasgow gli Stati si impegnassero veramente nell’azzerare le emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Tuttavia l’oceano riceve solo una minima parte dell’attenzione e dei finanziamenti nei dialoghi globali sul clima, e nel mondo finanziario sono scarse sia la consapevolezza degli impatti delle imprese sulla salute dell’oceano, che l’apprezzamento dei rischi finanziari derivanti dai cambiamenti nel sistema clima-oceano.
Blue Economy e finanza sostenibile
Tradizionalmente la Blue Economy include cinque settori che sono direttamente legati agli ecosistemi marini e costieri: pesca e acquacoltura; trasporto marittimo; porti; turismo costiero e marino; energie rinnovabili marine. Gli impatti negativi di questi settori sull’oceano sono ben conosciuti e per porre rimedio il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente e la finanza (UNEP FI) ha recentemente promosso la Sustainable Blue Economy Finance Initiative (SBEFI), una nuova piattaforma che si focalizza sulla intersezione tra finanza privata e salute dell’oceano. Riunendo istituzioni finanziarie assieme a scienziati, corporazioni e società civile, la SBEFI ha l’obiettivo di facilitare l’adozione e l’implementazione dei Sustainable Blue Economy Finance Principles per garantire che le attività di investimento, sottoscrizione e prestito siano allineate all'Obiettivo di sviluppo sostenibile 14 delle Nazioni Unite (SDG 14), "vita sott'acqua" e quindi far sì che le istituzioni finanziarie possano contribuire a ricostruire la prosperità degli oceani, ripristinare la biodiversità e rigenerare la salute degli oceani.
Le attività terrestri che impattano sulla vita dell’oceano
“Nella Blue Economy spesso parliamo solo di settori marittimi, ma questa è un’accezione limitativa, perché la sostenibilità dell’oceano non è legata solo a chi usa l’oceano per fini commerciali e di valore. Molte volte gli impatti vengono da attività terrestri, pensiamo all’aumento di temperatura e all’acidificazione dell’oceano, all’inquinamento da rifiuti plastici, all’eutrofizzazione” dice a Materia Rinnovabile Stefano Pogutz, direttore dell'MBA Full time di SDA Bocconi e presidente del Comitato Scientifico di One Ocean Foundation.
I rifiuti di plastica sono un esempio di attività terrestri che hanno un impatto sull’oceano e che al momento non sono incluse nei settori tradizionalmente pensati come settori della Blue Economy. “Sicuramente uno dei problemi principali generati dalle attività umane sull’ecosistema marino è quello della contaminazione da micro e nanoplastiche. Si tratta di un problema, scoperto relativamente di recente, di cui ancora si conosce poco e che è generato da settori anche insospettabili come le vernici, la cosmesi e l’automotive (si pensi agli pneumatici) per cui non esistono ancora veri e propri KPIs e strumenti di valutazione del loro impatto, ma su cui stiamo lavorando", dice a Materia Rinnovabile Giulio Magni, Operations manager di One Ocean Foundation.
Misurare gli impatti delle aziende sull’oceano
One Ocean Foundation in collaborazione con SDA Bocconi, McKinsey & Company e CSIC ha ideato e progettato l’Ocean Disclosure Initative, una nuova metodologia basata sul metodo scientifico per misurare l’impatto delle imprese sugli ecosistemi marini. Attraverso un sistema di linee guida e metriche standard (Key Pressure Indicators, KPIs), l'Ocean Disclosure Initiative ha l’obiettivo di supportare le aziende nel prendere coscienza dei loro impatti sugli ecosistemi marini, valutando in maniera scientifica i rischi associati ai vari tipi di impatto e divulgando informazioni chiave e risposte strategiche in maniera concreta e comprensibile per le aziende. Il progetto è stato presentato a fine settembre 2021 nella sede della borsa italiana e un primo Blue Rating aziendale basato su questa nuova metodologia e relativo a tre settori chiave (pesca e acquacultura, agricoltura, moda) dovrebbe essere rilasciato nei prossimi 12-18 mesi. In quel momento sarà resa nota nel dettaglio anche la metodologia utilizzata, che prevede una struttura di indagine e analisi comune, accompagnata da declinazioni specifiche per i diversi settori industriali, che potenzialmente includeranno anche tutti i settori produttivi: utilities, cioè trasmissione e distribuzione dell’energia, gestione delle acque, acque di scolo e rifiuti; estrazione di minerali, petrolio e gas naturale; tessile e abbigliamento; commercio all’ingrosso e al dettaglio; cibo e bevande; agricoltura; turismo; industria chimica e farmaceutica; manifatture e industria; costruzioni; trasporti e logistica. Così come la Sustainable Blue Economy Finance Initiative, l’Ocean Disclosure Initiative ha l’obiettivo di facilitare il rapporto tra imprese e finanza, contribuendo a indirizzare gli investimenti verso le imprese con strategie volte a prevenire e/o mitigare le loro pressioni sugli ecosistemi marini.
Oceano: troppo grande per essere ignorato
In un rapporto del 2015 il WWF aveva stimato che se l’oceano fosse un paese, sarebbe la settima economia mondiale, i cui ecosistemi marini e costieri forniscono ogni anno beni e servizi per un valore stimato conservativamente in 2,5 trilioni (2500 miliardi) di dollari americani. Il rapporto Value at risk pubblicato quest’anno sempre da WWF mostra che le attività umane hanno fortemente danneggiato l’oceano, e continuando con il business-as-usual nei prossimi 15 anni ci potrebbero essere danni economici per 8,4 trilioni di dollari. Anche se non è possibile eliminare le conseguenze di tutti gli impatti negativi che già hanno degradato l’oceano, gli ecosistemi marini e costieri hanno la capacità di rigenerarsi, e con un’azione immediata per ridurre gli impatti delle imprese il danno può essere contenuto in 3.3 trilioni di dollari.
In un evento a lato della COP26, il 31 ottobre è stata lanciata la Third Because The Ocean Declaration, un’iniziativa plurilaterale che incoraggia i paesi riuniti nella Conferenza per il clima a Glasgow a integrare i legami tra oceano, clima, biodiversità nei piani per implementare l’Accordo di Parigi.
Per citare le parole di un importante editoriale sulla prestigiosa rivista Science: “L'oceano non è troppo grande per fallire, né è troppo grande per essere riparato. È troppo grande per essere ignorato.”