Biomimetica e bioeconomia circolare, sono queste le direttrici lungo le quali sta accelerando l’innovazione cosmetica. A livello internazionale e in Italia, che da tempo rappresenta una bella fetta (60%) del mercato cosmetico al mondo, le attività di ricerca e sviluppo del settore sono volte a individuare i migliori ingredienti ed estratti, provenienti anche dagli scarti di altre produzioni, per garantire da un lato la massima efficacia e tollerabilità e dall’altro minori costi di produzione e ridotti impatti.

Ma tutto ciò non è sufficiente per definire un prodotto cosmetico a basso impatto ambientale: la concreta sostenibilità dei processi e dei prodotti si ottiene solo dopo che ne è stato valutato l’intero ciclo di vita, individuando punti critici e possibili soluzioni. 

Lo spiega bene Susanne Kaufmann, fondatrice dell’omonimo brand di skin-care austriaco: bisogna occuparsi della provenienza degli ingredienti, controllare come vengono coltivati, lavorati e cosa succede quando sciacquandoli li rimuoviamo dalla nostra pelle. E ancora, occorre fare attenzione al packaging – fornitori, materiali (riciclati, riciclabili, recuperabili, compostabili), trasporto – che rappresenta da solo dal 10 al 40% dell’impatto di ogni singola categoria di prodotto. 

Si tratta di tendenze che seguono l’interesse del consumatore sempre più consapevole e attento a scegliere prodotti efficaci, sicuri e ben tollerati dall’organismo e che non siano dannosi per l’ambiente. 

 

 

Dalla cosmesi biologica a quella biomimetica

 

La ricerca e sviluppo in ambito cosmetico oggi si sta spingendo verso nuove formulazioni, che vanno oltre il biologico, con ingredienti utili, riconosciuti dall’organismo e in perfetta affinità con esso. Sostanze – si dice – che biomimano l’organismo. Si tratta, in larga parte, di peptidi di origine naturale o riprodotti in laboratorio, che replicano/mimano l’azione delle proteine naturali dell’organismo, attivando particolari vie metaboliche e che per questo sono efficaci e ben tollerate.

Il marchio francese Etat pur è stato il primo a presentare oltre 40 cosmetici definiti biomimetici, detergenti o idratanti, illuminanti o anti età prodotti dalla Dipta, il centro di ricerche e produzione di marche quali Bioderma e Institut Esthederm. Secondo quanto affermato sul loro sito web, il 98% della composizione dei prodotti Etat pur è identica a quella cutanea con cui sono in grado di fondersi, senza perdere in efficacia. 

È invece tutto italiano il marchio biomimetico Ybiok nato da 3B Italia, azienda di Verona la cui fondatrice e Ceo Elisabetta Celino, ci spiega: “È una piccola rivoluzione: le formulazioni in totale mimesi con il nostro sistema cutaneo garantiscono un effetto ‘riconoscimento immediato’, un’ottimale veicolazione dei principi attivi, un assorbimento rapido e una tollerabilità altissima”. E non solo, precisa: “Un altro vantaggio importante è la possibilità di utilizzare un solo prodotto per tutte le zone del viso, compresa la delicata zona del contorno occhi”. 

I prodotti biomimetici non sono necessariamente certificati biologici, né tutti naturali (organici o inorganici senza trasformazioni chimiche) e neppure tutti di origine naturale (con trasformazioni di laboratorio), anche perché non sempre ciò che deriva dalla natura è sinonimo di assoluta tolleranza e sicurezza, né di efficacia del prodotto. Allo stesso tempo l’uso di un componente naturale piuttosto che chimico non dà garanzie relativamente alla sostenibilità, per esempio, sui consumi idrici, su quelli energetici necessari per l’estrazione o sulla persistenza nell’ambiente a fine vita. È anche per questo che l’analisi del ciclo di vita assume un ruolo cruciale per una valutazione completa e oggettiva. Certo è che l’uso di sostanze di derivazione petrolchimica, allergizzanti o con una seppur minima tossicità non può essere ammesso, anche solo in linea di principio, in prodotti che si configurano come “in perfetta affinità” con parti del nostro corpo.

 

 

Bioeconomia circolare cosmetica: dagli scarti vegetali risorse preziose

 

Un altro fronte di sviluppo della cosmetica riguarda la ricerca di principi attivi – antiossidanti, idratanti, antinfiammatori, nutrienti, leviganti, sbiancanti o olii essenziali – presenti negli scarti provenienti dai comparti agricolo e agroalimentare. In diversi casi lo scarto ha addirittura una concentrazione e disponibilità di principio attivo anche maggiore rispetto al non-scarto. Sono quantità significative e hanno costi e impatti di smaltimento molto alti; nella cosmetica trovano un settore promettente perché fonti di sostanze di qualità e a bassissimo costo. 

Secondo il Gruppo Ricicla Di.Pro.Ve (Dipartimento produzione vegetale, Facoltà di Agraria) dell’Università di Milano in Italia ogni anno si producono 12 milioni di tonnellate di scarti da industria agroalimentare; di questi, la frazione organica arriva a 9 milioni. 

L’estrazione di biomolecole e principi attivi da questi scarti abbinata alla successiva produzione di bioenergia e di fertilizzanti potrebbe portare, almeno in teoria, a un recupero totale di queste materie. In alcuni processi lo scarto, dopo l’estrazione, è davvero ridotto e il quantitativo da smaltire minimo.

Arterra Bioscience è un’azienda biotech con sede a Napoli che già da diversi anni produce principi attivi utilizzabili in cosmetica derivanti da vinacce, da acque di vegetazione dalla spremitura delle olive e da bucce di pomodori. L’azienda ha creato una joint venture – Vitalab – con Intercos, colosso mondiale della produzione in conto terzi di make-up e skin-care. Sia tramite i loro prodotti sia tramite vendita diretta ai brand a opera di Vitalab, l’azienda è presente in brand sia nella fascia del prestigio, come La Prairie, Chanel, Chantecaille, Eisenberg, Estée Lauder, sia nelle fasce intermedie come Douglas, Kiko e altri. 

“Abbiamo sul mercato cinque principi attivi derivanti da scarti della filiera agroalimentare, ognuno con una diversa composizione chimica e sottoposti a diverse procedure di estrazione – spiega Gabriella Colucci la fondatrice e AD di Arterra Bioscience e Vitalab – se uno è un ottimo idratante, un altro ha una funzione di antirughe per la sua azione sulla produzione di collagene, elastina e altri componenti della matrice del derma”.

Generalmente lo scarto è caratterizzato da una elevata concentrazione di determinate molecole bioattive, è più vantaggioso in termini economici ed estremamente più biosostenibile rispetto a fonti non-di scarto. Per esempio l’acqua di vegetazione derivante dalla spremitura delle olive ha un’altissima concentrazione di polifenoli, molecole dall’elevatissima azione antiossidante, superiore a quella presente nell’olio di oliva alimentare o a uso cosmetico. “Lo scarto – precisa Gabriella Colucci – può essere di natura sia agricola sia agroalimentare, ma la cosmetica non ama la chimica per cui gli scarti farmaceutici o di altri settori industriali trovano difficile applicazione”.

È più recente l’esperienza di Dermosfera, azienda italiana nel settore dell’estetica professionale che dal 2017 realizza, in collaborazione con uno spin-off dell’Università di Bologna, la linea cosmetica Rhea che utilizza scarti alimentari come l’estratto di pomodoro e l’estratto di rucola. “Questi sottoprodotti – racconta l’ideatore e responsabile ricerca e sviluppo del marchio Rhea, Gianmarco Alfonso – sono recuperati dai residui e dall’invenduto del mercato rionale di Bologna in un approccio a km zero, dove i produttori sono piccole aziende locali che coltivano secondo un modello certificato biologico o quantomeno con un approccio non di natura intensiva”. Nella linea Rhea è stato messo a punto un processo di estrazione a base ultrasonica per vibrazione molecolare e non basato su solventi chimici. “A conclusione di questo particolare processo – aggiunge Gianmarco Alfonso – si ha un reimpiego delle materie agricole del 100%, senza spreco alcuno”.

La lista degli scarti utilizzabili in cosmesi per le particolari proprietà dei principi attivi estraibili è in continua evoluzione e comprende anche le bucce degli agrumi, ricche di olii essenziali, gli scarti della raffinazione degli oli di riso, sesamo e girasole o dalla frutta secca – tutti ricchissimi di antiossidanti. Lo scarto della raffinazione dell’olio di riso (l’olio di crusca di riso) è utilizzato già dal 2004 da Venice Cosmetica, laboratorio cosmetico nato nel 1976. “Numerosi studi – afferma Roberta Destro, uno dei soci dell’azienda – confermano l’importanza dell’olio di riso come base nei cosmetici: il gammaorizanolo in esso contenuto è un filtro solare naturale che dovrebbe essere sempre impiegato nelle creme da giorno antietà per combattere i radicali liberi. Inoltre la linea Venice Cosmetica contiene estratti dal mais, dal girasole e acido ialuronico”.

 

 

La cosmetica eco

 

Oggi quando si parla di sostenibilità, come precisa Elisabetta Celino di Ybiok, “la tendenza è proporre al consumatore non solo prodotti rispettosi della pelle ed efficaci: le stesse multinazionali hanno la necessità di presentare una filosofia produttiva coerente al messaggio dei prodotti”. Lo sostiene anche Umberto Borellini, farmacologo e cosmetologo, docente presso vari atenei tra cui l’Università di Pavia e di Tor Vergata a Roma. “Ho iniziato a utilizzare scarti della pesca 30 anni fa per ottenere chitosani estratti dal guscio dei crostacei; se, quando formulo, si utilizzano sostanze dallo scarto per ottenere prodotti ugualmente efficaci, ne sono felice e il consumatore anche, ma non basta. Nel settore cosmetico – aggiunge Borellini – devono trovarsi applicazioni ancora più ambiziose: il sostegno a produzioni etiche provenienti dei paesi in via di sviluppo, un packaging del tutto compostabile e, soprattutto, bandire le microplastiche nei cosmetici”. 

Anche lui, in accordo con Susanne Kaufmann, punta l’attenzione a seguire tutto il ciclo di vita del prodotto. Ciò che utilizziamo e laviamo via non sempre è biodegradabile (e in tempi brevi) e può essere dannoso a forti concentrazioni soprattutto per gli ecosistemi acquatici. I prodotti peggiori in questo senso sono i filtri e i parabeni delle creme solari e le microplastiche dei prodotti esfolianti e dei dentifrici.

Per quest’ultime però il governo italiano si è mosso e ha legiferato, al pari di altri paesi in Europa e degli Stati Uniti, vietando dal 2020 l’impiego di microplastiche nei prodotti cosmetici. Del resto le soluzioni già ci sono: bioplastiche derivanti da scarti vegetali in creme e prodotti per lo scrub con la stessa identica funzione ed efficacia delle microplastiche non vegetali. “Altre valide alternative per gli scrub sono la zeolite, i gusci di nocciola tritati e il glucomannano derivante dalla fibra alimentare”, precisa Borellini. 

L’applicazione dell’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, Lca) alla filiera cosmetica è oggi il modo più efficace per valutare e comparare tutti questi aspetti e tutte le soluzioni, e ricavare un buon prodotto a minor costo e minori impatti possibili. Unifarco è stata la prima azienda cosmetica a ottenere l’Epd (Environmental Product Declaration, Dichiarazione ambientale del prodotto) a seguito di una valutazione di ciclo di vita in linea con prestabilite Pcr (Product Category Rules). Le valutazioni hanno considerato tutti gli aspetti e le ricadute ambientali di ogni fase di processo: dal reperimento delle materie prime e di quelle recuperabili, ai fornitori, ai consumi e impatti di produzione e trasporto, al packaging e allo smaltimento, fino all’immissione – durante l’uso del prodotto – nell’ambiente, dandone conto in una dichiarazione finale.

Solo così si avrà una cosmesi che non fa male all’ambiente, eco o green che dir si voglia, che si aggiunga alla ricerca del momento sui prodotti a partire dagli ingredienti, come nella biomimesi o nel riuso degli scarti, per garantire sempre più efficacia e tollerabilità degli ingredienti e minori costi ma, anche, grazie all’Lca, minori impatti a tutto campo. 

 

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