Oggi nel mondo le biomasse contribuiscono per il 10-12% al bilancio energetico: sono al primo posto tra le rinnovabili e possiedono un significativo potenziale di espansione sia per quel che riguarda la produzione di elettricità e calore, sia nel settore dei trasporti. Ma non basta. La sfida è produrre biomasse in maniera sostenibile (evitando il conflitto con le necessità alimentari) e passare a un loro uso più efficiente e tecnologicamente avanzato (attualmente viene impiegato solo il 40% della materia prima utilizzabile con le conoscenze e le tecnologie al momento disponibili). 

È una sfida ineludibile perché, nonostante le difficoltà accennate, l’interesse verso il settore bioenergetico continua ad aumentare per due fattori: la crescita del prezzo dei combustibili fossili e le preoccupazioni riguardanti la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Questa spinta suggerisce dunque un’analisi attenta del settore e delle sue potenzialità. Ecco i punti essenziali.

 

La chimica verde 

L’utilizzo della biomassa come fonte rinnovabile può essere realizzato recuperando la materia prima vegetale residuale derivante dalla manutenzione forestale, dai residui agricoli, dagli scarti dell’industria del legno e di quella agroalimentare. Oppure producendola in apposite coltivazioni energetiche. 

Ancora oggi gran parte della biomassa viene utilizzata direttamente per il riscaldamento, specie nei paesi in via di sviluppo. Ma è sugli usi tecnologicamente avanzati che ovviamente si concentrano i maggiori interessi. Parliamo di chimica verde: le biomasse, grazie a processi chimici avanzati, si possono trasformare in sostanze utilizzabili per produrre un’ampia gamma di composti intermedi dai quali si ricavano altri prodotti (biobased products, cioè prodotti ottenuti da materiali di origine biologica) ed energia.

 

Il consumo di suolo

Purtroppo a oggi più della metà della materia vegetale residuale disponibile viene sprecata e si utilizza soprattutto la biomassa prodotta nelle coltivazioni energetiche. Così è ricavata la stragrande maggioranza di biocarburanti liquidi prodotti e distribuiti su larga scala: da canna da zucchero, mais e altri cereali, barbabietole e alcune colture oleaginose.

Basterebbe solo questo per comprendere il potenziale conflitto esistente tra colture energetiche e il fabbisogno alimentare da soddisfare nel prossimo futuro con una popolazione mondiale ancora in forte crescita. 

Il suolo – necessario sia per coltivare prodotti per l’alimentazione sia per le colture energetiche – è una risorsa preziosa, oltre che scarsa. 

A livello globale la maggior parte del terreno disponibile per la produzione di biomassa è già utilizzata; senza contare che oltre un quinto della superficie complessiva (13 miliardi di ettari) non può ospitare né colture, pascoli o foreste anche solo per ragioni climatiche. 

È semplicemente impossibile pensare quindi di soddisfare il fabbisogno energetico impiegando solo la biomassa ricavata da colture dedicate, visto che sarebbero necessarie enormi estensioni di terreno. In alcuni paesi dove è stata valutata questa possibilità – uno studio del genere è stato portato avanti negli Usa relativamente alla produzione di biocarburanti – si è giunti alla conclusione che il territorio utilizzabile non sarebbe comunque sufficiente a rifornire i veicoli esistenti. 

Senza dimenticare che la potenziale competizione tra le colture bioenergetiche e quelle per il consumo alimentare non riguarda solo il consumo del suolo, ma ha anche risvolti in termini di consumi idrici, uso di fertilizzanti e impiego di lavoro. 

 

 

Gli impatti 

Non solo. Oltre a sottrarre terre utilizzabili per la produzione alimentare, le colture intensive necessarie a produrre biocarburanti impattano sulla biodiversità locale e determinano l’espansione della monocoltura a scopo energetico anche in aree non agricole, spingendo alla deforestazione. 

Inoltre va considerato il rapporto non sempre positivo tra l’energia necessaria per produrre biocarburanti e quella che si rende disponibile dal loro impiego. 

Un solo esempio. Dal punto di vista idrico per produrre un litro di biodiesel servono complessivamente 4.000 litri di acqua, considerando sia quella necessaria per l’irrigazione delle colture sia quella utilizzata durante il processo chimico di trasformazione.

Tutto ciò per dire che rischi e benefici legati alla produzione di bioenergia devono essere attentamente valutati alla luce di elementi caratteristici di ciascun paese e di ciascuna regione. 

Proprio per valutare i pro e i contro degli investimenti nel settore, la Fao ha messo a punto una nuova metodologia: “Bioenergy and Food Security Analytical Framework”. 

Il metodo permette di valutare il potenziale di produzione di bioenergia in uno specifico contesto e al tempo stesso di stimarne i possibili impatti, considerando la fattibilità del progetto di sviluppo, le ricadute sulla disponibilità e sulla sicurezza degli alimenti, gli aspetti sociali e ambientali. 

 

Valorizzare le aree marginali 

Per ridurre l’entità del consumo del suolo e gli impatti a esso collegati e non sottrarre terreno alle coltivazioni per usi alimentari, una possibilità concreta per le colture bioenergetiche è quella di utilizzare i terreni marginali. Parliamo delle aree che per le loro caratteristiche climatiche, pedologiche o colturali sono inadatte all’uso agricolo tradizionale. 

Esempi di aree marginali sono le cave e miniere a cielo aperto esaurite o dismesse, le discariche chiuse o abbandonate. E ancora: aree degradate e inquinate, aree industriali dismesse, terreni coltivabili mai seminati e privi di vegetazione, ex siti militari e terreni comunque inadatti alla coltivazione, all’uso forestale o a pascolo, ricadenti nelle ultime classi di capacità d’uso dei suoli (land capability).

Si tratta di aree che, al contrario di quanto potrebbe apparire, possono essere utilizzate con grande vantaggio e diventare produttive. Ci sono, per esempio, alcune piante in grado di crescere bene anche in terreni inquinati da metalli pesanti. Un’altra possibilità poi è quella di irrigare le colture energetiche in tali aree con le acque reflue, ottenendo notevoli benefici in termini di consumo idrico e non sottraendo acqua agli usi potabili e agricoli. 

 

L’obiettivo europeo: arrivare al 10% di biocarburanti 

Dal 2002 al 2012 il consumo di biocarburanti nei trasporti nei paesi Ue-28 è sempre stato in crescita e si è attestato nel 2013 intorno a 13,6 Mtep. E l’obiettivo dell’Ue è di arrivare – nel 2020 – a utilizzare nel mix di carburanti una quota di biocarburanti pari al 10%. 

Questo incremento nei consumi ha prodotto due conseguenze. Da una parte ha fatto crescere l’importazione di materia prima e/o di prodotto finito – soprattutto etanolo – da paesi terzi. 

Dall’altra, sulla spinta degli incentivi concessi dall’Ue ai biocarburanti, ha incoraggiato la conversione indiscriminata di molti terreni agricoli, sottraendoli alle produzioni destinate all’alimentazione. In Germania, Olanda e Francia, dove per la produzione di biocarburanti viene usato principalmente l’olio di colza, oltre il 60% delle coltivazioni di questa pianta viene destinato a tale uso.

In realtà con la nuova Pac e il disaccoppiamento tra aiuto e destinazione d’uso dei suoli, gli agricoltori europei hanno varie possibilità per aumentare la loro produzione di biomassa, senza consumare suolo in più. Per esempio, inserire colture energetiche nella rotazione delle coltivazioni oppure utilizzare a tal fine i terreni non adatti alla coltivazione di prodotti alimentari, ma che in questa ottica potrebbero essere riabilitati. 

 

 

La situazione italiana 

Negli ultimi anni in Italia la produzione di biomasse per usi energetici e industriali è cresciuta costantemente. Secondo il Piano di azione nazionale sulle rinnovabili le biomasse dovrebbero coprire – rispetto al totale delle fonti energetiche rinnovabili – il 19% del totale dei consumi elettrici, il 54% del fabbisogno di energia per riscaldamento e raffreddamento e l’87% nel settore dei trasporti.

Per la produzione di energia termica e/o elettrica le biomasse più utilizzate sono costituite essenzialmente da legna (circa 23 milioni di t/anno, di cui più o meno l’83% impiegati per il riscaldamento domestico) e residui forestali, agricoli e agroindustriali.

Nella produzione di biodiesel l’Italia è al quarto posto in Europa, dopo Germania, Francia e Spagna, con una capacità produttiva di oltre 2 milioni di t/anno (dato relativo al 2011).

Purtroppo il potenziale della nostra industria è largamente sottoutilizzato: l’esistenza di agevolazioni all’esportazione in alcuni paesi extraeuropei rende più conveniente approvvigionarsi di biodiesel da produttori stranieri. Con il risultato che, a fronte di una produzione sostanzialmente stabile, la crescente richiesta da parte del mercato viene soddisfatta in misura sempre più rilevante dalle importazioni.

Per invertire questo fenomeno e sfruttare meglio il potenziale produttivo dell’Italia è necessario stimolare la produzione di biomasse in maniera più efficiente e nello stesso tempo aumentare la raccolta delle biomasse residuali. Ovvero, recuperare quegli scarti diffusi, significativi in termini quantitativi, disponibili nel settore agricolo (potature), forestale (residui forestali) e dell’agroindustria (gusci, sanse) che spesso rimangono inutilizzati o distrutti impropriamente.

Al momento in Italia si coltivano ai fini energetici soprattutto colza (80%) e girasole (20%). 

Ma di fatto non esistono dati precisi sulle colture energetiche che appaiono quasi ignorate dalle statistiche ufficiali. 

Se si esclude la filiera del pioppo per produrre cippato, le altre colture utilizzabili per produrre biocarburanti (colza, girasole, soia) o generare biogas (mais, sorgo, triticale) sono indistinguibili dalle analoghe colture alimentari, dalle quali le differenzia solo l’uso finale. 

In Italia non si sono mai diffuse ampiamente: non perché non sia esistito un reale interesse da parte degli agricoltori o per mancanza di terreni, ma perché il mercato non ha mostrato di ripagare adeguatamente i costi sostenuti dagli agricoltori, rispetto al più tradizionale mercato delle colture alimentari. 

Nell’ottica della valorizzazione delle colture energetiche l’agricoltura conservativa può senz’altro svolgere un ruolo positivo. Per esempio, utilizzare per le coltivazioni le aree collinari i cui suoli privi di copertura vegetale dopo la raccolta di cereali e orticole nel periodo autunnale-invernale sono più facilmente soggetti a fenomeni di erosione idrica. 

Particolarmente utile poi potrebbe essere anche l’adozione di pratiche di short rotation forestry (Srf), che consistono nell’impianto di colture legnose-arboree o arbustive a turno breve e rapido accrescimento.

Così come potrebbe essere significativo il contributo delle aree marginali. 

In Italia la superficie totale disponibile per le colture bioenergetiche è pari a 1-2 milioni di ettari; di questi circa 200.000 sono aree pubbliche incolte di cui spesso le amministrazioni non sanno cosa fare e che – in questa logica – rappresentano una risorsa preziosa. 

 

La possibilità più ampia viene proprio dalle cave e miniere a cielo aperto esaurite, che potrebbero contribuire per oltre il 3% del fabbisogno energetico nazionale. A seguire le discariche, le aree contaminate e le ex aree militari.

In Sardegna e in Sicilia sono già partiti alcuni progetti di riutilizzo di vecchi siti industriali dismessi: aree compromesse e inquinate nelle quali viene coltivata la canna comune (Arundo donax).

Il recupero delle aree degradate per la coltivazione di biomassa è alla base anche del progetto “From marginal to renewable energy sources sites” (M2RES). Il sistema proposto riesce a ridurre i costi di produzione dei biocarburanti, diminuire la quantità di acqua e fertilizzanti e a non incidere sulle risorse alimentari a disposizione dei consumatori. 

Il progetto prevede di utilizzare piante a semina autunnale capaci di svilupparsi anche in condizioni di scarso apporto idrico; terreni normalmente non adatti per la produzione di specie alimentari (zone premontane, zone marginali); la valorizzazione completa dei co-prodotti per aumentare l’efficienza energetica a parità di acqua, diserbanti, concimi e forza lavoro; la rotazione con particolari leguminose, anch’esse adatte a vivere in condizioni di arido-coltura, per evitare l’impoverimento di sostanze organiche nel terreno. Sono esclusi i terreni coltivati negli ultimi tre anni a scopi di alimentazione umana e animale e quelli che rientrano in I e II classe di capacità d’uso, così come i terreni destinati a colture di pregio, a coltivazioni biologiche o a marchi di tutela riconosciuti dall’Ue.

 

Bibliografia

  • “Biofuels Barometer”, Eurobserv’er, 2014; www.eurobserv-er.org
  • Di Mario F., Braccio G., Pignatelli V., Colonna N., Zimbardi F., Quaderno Biomasse e Bioenergia, Enea, 2011
  • Meneghello G., “Biofuel, al 2020 il 10% sarà di seconda generazione” intervista a Vito Pignatelli, Qualenergia.it, 21 settembre 2011; www.qualenergia.it/articoli/biocarburanti-biofuel-la-seconda-generazione-2020-Pignatelli-Enea-etanolo-ligno-celulosico
  • Khwaja Y., Maltsoglou I., “Agriculture, bioenergy and food security: using BEFS to guide agricultural change”, Bioenergy and Food Security The BEFS analysis for Tanzania, Fao, Environment and natural resources management working paper n. 35, 2010, pp. 13-22
  • “M2RES - Transforming marginalities into RES opportunities: experiences and lessons learnt”, Programma South East Europe, 2014; www.m2res.eu
  • Maddalena L., Lo sviluppo delle energie alternative: il caso Puglia, Franco Angeli, Milano, 2012
  • “Solid Biomass Barometer”, Eurobserv’er, 2015; www.eurobserv-er.org
  • Tavolo di filiera per le bioenergie. DM 9800 del 27 aprile 2012, Gruppo di lavoro n. 1 Biomasse – Biocarburanti e bioliquidi – Biogas e biometano – Chimica verde, Stato dell’arte della bioenergia in Italia, giugno 2014; www.itabia.it/doc/pdfRapporto_Stato_filiere_bioenergetiche_GR1.pdf