*da Dubai

 

L’equazione è semplice: se si vuole decarbonizzare l’economia non basta un testo finale qua a COP28 che chieda il phase out di tutte le fossili, con emissioni abbattute o non abbattute che sia. Dal 14 dicembre si dovrà lavorare per movimentare 2.400 miliardi di dollari entro la fine del decennio. Materia Rinnovabile, in collaborazione con National Geographic, ha intervistato Avinash Persaud, economista, inviato speciale del Governo di Barbados e mente della principale iniziativa di riforma finanziaria climatica dentro UNFCCC, la Bridgetown Initiative, che spinge in particolare sulla ristrutturazione delle banche di sviluppo multilaterali, come la Banca Mondiale, e sulla ristrutturazione intelligente del debito dei paesi più vulnerabili e meno sviluppati.

Avinash Persaud fotografato da Emanuele Bompan

 

Abbiamo quasi raggiunto il goal di movimentare 100 miliardi di dollari all'anno dal 2020 al 2025 per i finanziamenti per il clima. Ma, per economisti come Lord Nicholas Stern, per decarbonizzare l'economia e rimanere al di sotto dell'obiettivo di 1,5°C abbiamo bisogno di 2.400 miliardi di dollari da erogare sotto forma di prestiti, sovvenzioni, garanzie e altre forme finanziarie. Come possiamo raggiungere tale obiettivo entro la fine del decennio, nell'anno simbolico 2030? 

Ho smesso di preoccuparmi dei 100 miliardi un paio di anni fa, quando è diventato molto chiaro che la quantità di risorse di cui avevamo bisogno era di molte volte maggiore. I 2.400 miliardi di dollari includono tutti i tipi di finanziamenti e sono necessari per fare progetti, mentre i 100 miliardi erano solo aiuti pubblici. Ma oltre la metà di questi soldi serve per progetti di decarbonizzazione che generano entrate, dunque vanno trovati esclusivamente nel settore privato, su cui serve fare pressione.

Il secondo ammontare per dimensione è costituito da progetti per cui non ci sono entrate ma che generano risparmi. Se spendo 1 dollaro per l’adattamento climatico oggi ne risparmierò 7 in futuro. Quindi posso prendere in prestito denaro a questo scopo, perché posso usare i risparmi per pagare gli interessi e rimborsare il mutuatario.

Ci sono infine spese che non generano entrate né risparmi. Se chiedo prestiti per questi costi affogherò sotto un oceano di debiti. Questi costi sono le perdite e i danni. Se deve chiedere un prestito a ogni disastro climatico, per un Paese vulnerabile sarà impossibile ripagare i debiti. Oggi circa la metà dell'aumento del debito nei Paesi vulnerabili è legato alle perdite e ai danni causati da disastri naturali, motivo per cui quest'anno abbiamo dato grande impulso a Fondo perdite e danni. Ed è qui che devono andare le risorse pubbliche.

 

Ma per il Fondo Loss and Damage non bastano gli spiccioli messi sul piatto qui a Dubai. Dato che si tratta di grant derivati dal pubblico, di quanto abbiamo bisogno?

Servono almeno 100 miliardi di dollari all'anno per Loss and Damage da finanza pubblica (il totale delle perdite e dei danni ammonta a oltre 150 miliardi, in aumento se non mitigheremo abbastanza velocemente). Qualche miliardo verrà dai bilanci nazionali, ma i Paesi hanno bisogno di generare nuove entrate: parliamo di tasse legate alle emissioni sulla navigazione, sull'aviazione, sulle fughe di metano. I consumatori pagheranno in parte per questo, ma abbiamo bisogno che anche le aziende, gli azionisti e il capitale contribuiscano. Una soluzione? Una tassa di un paio di punti percentuali sui profitti dell'industria dei combustibili fossili.

 

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Servono poi le risorse per i prestiti per il clima, sia per mitigazione che adattamento. Dove li troviamo?

Le Banche multilaterali di sviluppo, come gruppo, prestano circa 100 miliardi di dollari all'anno. In vista degli obiettivi di adattamento, abbiamo bisogno che si arrivi a 300 miliardi di dollari all'anno. Le Banche multilaterali possono arrivare a metà strada ‒ e la Banca Mondiale ha iniziato questo percorso ‒ utilizzando meglio il capitale esistente, ad esempio facendo non prestiti individuali ma portafogli di prestiti, oppure utilizzando i Diritti Speciali di Prelievo [una valuta del Fondo Monetario Internazionale, nda] mescolati al loro capitale.

Così saliamo a 200 miliardi all'anno. Per gli ultimi 100 miliardi dovremo iniettare nuovo capitale nelle banche multilaterali in un arco dieci anni. Per Paesi come l'Italia si tratta di allocare circa 350 milioni di dollari all'anno. Eppure non c'è modo migliore: per ogni dollaro versato nei capitali delle banche multilaterali, esse possono prestarne da 7 a 10 dollari ai Paesi in via di sviluppo.

 

Abbiamo poi le istituzioni private che, reagendo al multilateralismo e a decisioni come l’Accordo di Parigi, stanno ridefinendo le proprie priorità. Come cambierà il ruolo delle banche d’investimento e dei fondi?

Dobbiamo coinvolgere il settore privato, per due ragioni. Innanzitutto l'importo di cui abbiamo bisogno è un numero che il settore pubblico non ha. In secondo luogo, il settore privato già lo sta facendo nei Paesi sviluppati. L'81% dei progetti di energie rinnovabili è finanziato dal privato nei Paesi ricchi. Ciò dimostra l’interesse delle banche e dei fondi. Il problema è che non investono nei Paesi in via di sviluppo perché i rischi sono maggiori. A Barbados offriamo la possibilità di avere la stessa aliquota fiscale per 25 anni, indipendentemente dal governo eletto, oppure la possibilità di portarci in tribunale se rinneghiamo un contratto, ma in altri Paesi non ci sono queste garanzie. Servono sistemi che coprano il premio di rischio. Quello che stiamo chiedendo ai Paesi in via di sviluppo è di muoversi più velocemente di quanto qualunque altro Paese abbia mai fatto finora, ma i loro risparmi interni non sono sufficienti, devono importare capitali.

 

Per tanti Paesi perdura la questione del debito, che li rende incapaci di prendere nuovi prestiti. Come fare?

Potrebbero ristrutturare il proprio debito, ma dovrebbero farlo nell'ambito di un programma del Fondo Monetario Internazionale, che dia ai creditori la fiducia necessaria per tornare indietro. I Paesi hanno però paura dei programmi di ristrutturazione del FMI. Quindi dobbiamo rendere i suoi programmi più favorevoli e legarli alla decarbonizzazione, per incoraggiare una maggiore ristrutturazione del debito laddove i debiti sono troppo alti. Ci sono nazioni poi che hanno ottenuto prestiti da altri Paesi: questo debito potrebbe essere cancellato come misura di politica estera.

 

Pare che anche quest’anno non si completerà l’articolo 6, di fatto rimandando ancora un mercato internazionale sui crediti di carbonio. Che ruolo hanno questi per movimentare le risorse necessarie?

A lungo termine, i mercati e i prezzi del carbonio saranno importanti. Il salto di livello sarà tra il mercato nazionale e quello transfrontaliero. I mercati nazionali del carbonio sono conformi, sostenuti dalla forza della legislazione nazionale. I mercati transfrontalieri invece non hanno giurisdizioni fiscali tra Paesi. Ci rimane un mercato volontario che però non funziona benissimo ed è minuscolo. Se contiamo il tempo in cui parliamo dei mercati del carbonio rispetto a quanto valgono, è enormemente sproporzionato: raccoglie solo 2 miliardi di dollari l'anno, nemmeno l'1% di quanto serve.

Quindi dobbiamo creare più mercati nazionali, che potrebbero non avere tutti lo stesso prezzo del carbonio, e stabilire tasse transfrontaliere, come una tassa sulle emissioni del trasporto marittimo. Se poi si consentisse una compensazione a tale imposta in qualsiasi parte del mondo che soddisfi determinate condizioni, avremmo creato un mercato transfrontaliero del carbonio.

 

Come possiamo leggere la COP28 dal punto di vista della finanza climatica?

La COP28 ha già ottenuto risultati importanti: erogato un Fondo per le perdite e i danni, confermato una ricapitalizzazione del Fondo verde per il clima per 12,4 miliardi di dollari, fissato una scadenza per aiutare le banche multilaterali di sviluppo a concordare clausole per debiti passati e nuovi, portato a una bozza di dichiarazione finanziaria che riflette molto la Bridgetown Initiative. Non credo che otterremo molto di più. Ci saranno richieste maggiori, ma senza finanza non si fa nulla.

 

Dove guardare, quindi?

Il campo di battaglia per questo non è la COP, ma le riunioni bancarie primaverili e autunnali: abbiamo bisogno che le Banche multilaterali di sviluppo siano tre volte più grandi.

 

Come procedere sul phase out dei sussidi alle fonti fossili?

Sono un economista di formazione. Istintivamente non mi piacciono i sussidi per cose dannose. Le persone però vedono il phase out dei sussidi in modo troppo semplicistico, dato che molte di queste sovvenzioni sono destinate ai consumatori. Penso che l'ammontare dei sussidi da ridurre e trasferire in sicurezza sia molto inferiore rispetto alle cifre riportate dai giornali. Siamo nell'ordine di 300 miliardi di dollari anziché 1.400 miliardi di dollari. Tuttavia, 300 miliardi non sono una piccola somma di denaro. Fa una grande differenza ad esempio per il Loss and Damage.

 

L'Italia ha sostenuto l'iniziativa Bridgetown?

L'Italia ha sostenuto un importante finanziamento del Fondo perdite e danni, così come ha sostenuto la Bridgetown Initiative nelle riunioni del G20.

 

Speriamo continuerà a farlo nel G7. Intanto in Europa Mario Draghi è stato proposto da Macron come prossimo presidente della EU. Come potrebbe influire sulla finanza europea per il clima?

Mario Draghi è una delle persone più impressionanti che conosco. Metterebbe sicuramente l'Europa in una buona posizione. Serve essere uniti per la sfida climatica, e al momento non lo siamo, sotto la spinta di un nazionalismo che nega sempre di più il ruolo del multilateralismo a livello globale. Draghi potrebbe essere un argine.

 

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Foto di copertina: Jordan Opel, Unsplash