Tutti ne parlano, ma pochi la praticano davvero: se l’economia circolare è oggi un megatrend (con una quantità di articoli, report e dibattiti sul tema triplicata negli ultimi cinque anni), la sua popolarità non trova tuttavia rispondenza nei fatti. È questa, in poche parole, la conclusione a cui giunge il Circularity Gap Report 2024.

Arrivato alla sua settima edizione, lo studio, presentato oggi, mercoledì 24 gennaio, dal think-tank Circle Economy e realizzato in collaborazione con Deloitte, conferma il trend in discesa evidenziato lo scorso anno. Il tasso di circolarità globale è infatti fermo al 7,2%, dopo essere calato dal 9,1% del 2018 (prima edizione del report) all’8,6% del 2021. In pratica, su 100 miliardi di tonnellate di materiali consumati ogni anno dall’economia globale, solo il 7,2% sono materie prime seconde.

I ricercatori di Circle Economy hanno quindi deciso di passare dalla teoria alla pratica, redigendo una vera e propria roadmap globale di azioni da mettere in pratica con una certa urgenza per spingere la transizione circolare: politiche, strumenti finanziari e riforme nel campo del lavoro e della formazione.

“Nel report di quest’anno – scrivono gli autori Matthew Fraser, Álvaro Conde e Laxmi Haigh – siamo passati dal cosa al come, esplorando le diverse soluzioni che ci occorrono per cambiare finalmente le regole del gioco”.

Leggere i numeri del Circularity Gap Report

Come scrivevamo già l’anno scorso, bisogna usare alcune accortezze per non farsi spaventare (o almeno, non più del dovuto) dai numeri del Circularity Gap Report. Innanzitutto va detto, riprendendo le parole di Laxmi Haigh, che “c’è molto più nell’economia circolare del semplice riuso dei materiali”. Il tasso di circolarità calcolato dal report dà infatti conto solo della quantità di materie prime seconde utilizzate dall’industria globale, e non di tutte le strategie per allungare la vita dei prodotti che possono essere implementate in un modello economico davvero circolare (sharing economy, prodotto come servizio, riuso, rivendita, rigenerazione, riparazione ecc.).

In secondo luogo, ci sono dei flussi di materiali che ancora sfuggono a stime affidabili, come la biomassa, che quindi è per il momento lasciata fuori dalla percentuale del Circularity Gap. Infine, bisogna precisare che il dato non viene ricalcolato ogni anno, vista l’effettiva difficoltà di raccogliere tutte le informazioni necessarie a livello globale: quindi, chissà, l’anno prossimo potremmo anche avere una bella sorpresa.

Come rendere circolare l’economia globale

Detto questo, rimane il fatto che, solo negli ultimi 5 anni, l’umanità ha consumato ben 500 miliardi di tonnellate di materiali: praticamente la stessa quantità consumata in tutto il XX secolo. Chiaramente così non si può andare avanti, soprattutto perché questi ritmi di sfruttamento delle risorse ci hanno già portati a superare 5 dei 9 limiti planetari, definiti da Johan Rockström come la soglia da non oltrepassare per garantire la sopravvivenza dell’umanità. I ricercatori di Circle Economy si sono quindi rimboccati le maniche e hanno messo nero su bianco una serie di misure, realistiche e modellate sulle esigenze di Paesi con diversi livelli di sviluppo economico, per dare una spinta alla transizione circolare.

Ci sono misure politiche, come l’adozione di certificazioni e standard internazionali per la circolarità e sostenibilità dei prodotti, la promozione del Right to Repair, l’adozione di schemi EPR (responsabilità estesa del produttore), la cancellazione o alleggerimento del debito dei Paesi in via di sviluppo; misure finanziarie, come la revisione della tassazione per “premiare” prodotti e pratiche circolari; e iniziative per il settore del lavoro, come la promozione dei green jobs, la formazione e il reskilling, l’inquadramento del lavoro informale.

I settori più impattanti

I macrosettori su cui ci si concentra sono i tre più impattanti: food system, edilizia e industria manifatturiera.

Il settore agroalimentare, oltre a dar da mangiare all’umanità, impiega anche il 50% della forza lavoro globale, ma, come evidenzia il report, ha alcuni grossi problemi di sostenibilità. Tanto per cominciare, è la causa maggiore di perdita della biodiversità e un quarto delle risorse di acqua dolce è disperso per colpa dello spreco alimentare. Inoltre, il comparto dell’allevamento da solo utilizza un quarto di tutta la terra disponibile, praticamente due Americhe.

Il comparto edile e l’ambiente costruito in totale generano invece circa il 40% delle emissioni di gas climalteranti, mentre l’estrazione di minerali per la costruzione è responsabile del 25% del cambiamento d’uso del suolo e i processi di costruzione e demolizione a livello globale consumano un terzo di tutte le materie prime.

Infine, il settore manifatturiero (si va dal tessile all’automotive), oltre alle emissioni climalteranti e ai consumi energetici e idrici, è collegato alla deforestazione e al rilascio di rifiuti pericolosi e sostanze chimiche nell’ambiente.

Circolarità su misura per tutti

Gli autori del Circularity Gap Report tengono a sottolineare come, quest’anno per la prima volta, le persone vengano “messe al centro della storia”. “Per garantire che la transizione verso un’economia circolare sia giusta ed equa, le soluzioni circolari devono essere progettate pensando alle popolazioni più vulnerabili del mondo, in modo da ridurre le disuguaglianze tra la forza lavoro e aumentare le opportunità le opportunità per tutti”, dichiara Ivonne Bojoh, CEO della Circle Economy Foundation.

Le soluzioni suggerite non sono quindi a “taglia unica”, ma sono modellate a seconda dei livelli di sviluppo e delle esigenze dei diversi Paesi, suddivisi dai ricercatori di Circle Economy in tre grandi categorie: Shift Countries (i Paesi in transizione), Grow Countries (le economie in crescita), Build Countries (i Paesi che ancora stanno costruendo una loro economia).

Gli Shift Countries (come Unione Europea, UK, USA, Giappone, Canada, Australia) sono quelli che più contribuiscono al superamento dei limiti planetari. A fronte di una popolazione che rappresenta il 17% di quella globale, producono il 43% delle emissioni e consumano un quarto di tutte le materie prime. Questi Paesi sono arrivati a un punto del loro sviluppo in cui l’accelerazione di produzione e consumo non porta più nessun miglioramento nel benessere delle persone. La sfida per loro è dunque diminuire drasticamente l’utilizzo di materiali e risorse passando a modelli di consumo circolari.

I Grow Countries (come Cina, Indonesia, Brasile, Messico, Vietnam, Myanmar ed Egitto) sono i Paesi a medio reddito, con economie in crescita e che hanno bisogno di migliorare ancora gli standard di vita dei propri abitanti. Rappresentano il 37% della popolazione mondiale e il 41% delle emissioni globali. Il loro compito, secondo il report, sarà quello di stabilizzare la quantità di materiali consumati adottando pratiche circolari.

I Build Countries (come India, Bangladesh, Etiopia, Nigeria, Pakistan e Filippine) sono, infine, i Paesi a basso reddito, che contribuiscono in minima parte alla crisi climatica (17% delle emissioni) e al superamento dei limiti planetari, nonostante ospitino quasi la metà della popolazione mondiale (il 46%). Per questi Paesi il Circle Economy “prescrive”, al contrario di tutti gli altri, un aumento del consumo di materiali, che sarà necessario per costruire le infrastrutture di cui sono ancora carenti e indispensabili per migliorare salute, benessere e, non da ultimo, resilienza climatica delle popolazioni. Naturalmente anche per loro lo sviluppo dovrà essere improntato a principi circolari: anche se sono ancora indietro, è bene partire subito con il piede giusto.

Implementando le politiche, gli incentivi e i nuovi modelli di produzione e consumo indicati, secondo il Circularity Gap Report 2024 si potrebbe “ridurre l’uso dei materiali di un terzo, portando a un mondo due volte più circolare e più sicuro per il pianeta e tutti i suoi esseri viventi”.

 

Immagine: Louis Maniquet, Unsplash

 

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