Lo scorso 27 gennaio, come un lungo serpente colorato, almeno duecento persone in sci, in ciaspole, a piedi hanno risalito le piste deserte della Panarotta, piccolo comprensorio trentino chiuso, tra dissesti finanziari e cronica mancanza di neve, per il secondo anno consecutivo.

Godendosi la vista mozzafiato interrotta solo dal rudere di un impianto d'altri tempi, il gruppo ha potuto urlare la sua richiesta: un rilancio veramente sostenibile che sleghi il suo futuro da quello dello sci su pista.

La crisi della Panarotta

Con una quota massima di 2.000 metri (o un paio di più, come il suo nome ufficiale, Panarotta2002), il comprensorio ricade al di sotto della fatidica linea di affidabilità della neve che, secondo la maggior parte degli studi, con la crisi climatica segnerà il destino di molte aree sciistiche.

Già duramente colpita dal Covid, la comunità locale aveva accarezzato l'idea di ripartire dal turismo lento. Ma l'illusione era durata poco: con il benestare delle amministrazioni provinciali, da qualche mese gli imprenditori locali hanno iniziato a chiedere a gran voce fondi (6 milioni) per un tentativo di rilancio nel segno del business as usual: un nuovo impianto di innevamento con bacino artificiale da 20.000 metri cubi e massicci sbancamenti per allargare le piste.

Un "accanimento terapeutico" per le oltre venti realtà che hanno organizzato la marcia, tra cui Extinction Rebellion, Fridays for Future, Legambiente, WWF, Italia nostra, Mountain Wilderness e il Comitato Acque Trentine. La Panarotta, affermano, può vivere benissimo grazie a escursionisti, scialpinisti e alle tante famiglie che, come dimostrano i rifugi rimasti aperti in questi anni di chiusura, continuano a frequentare la zona.

Non solo ambientalismo

Iniziative come quella della Panarotta stanno diventando sempre più diffuse. Solo nel 2023 in due occasioni, Ribelliamoci alpeggio e Reimagine Winter, gli attivisti avevano manifestato contemporaneamente in una decina di località montane in crisi d'identità, dalle Alpi all'Appennino.

A differenza di altre lotte del passato, a prendere parte alle proteste non sono solo i gruppi classicamente ambientalisti, ma realtà che parlano a chi in montagna ci vive, lavora o la frequenta da vicino. Come il gruppo The Outdoor manifesto, che riunisce scialpinisti, snowboarder e sportivi della montagna: "Nella nostra visione, le attività outdoor, se praticate con consapevolezza, possono essere d'aiuto per tornare a far sentire parte integrante del sistema naturale. Per questo abbiamo deciso di mobilitarci per la sua difesa", spiega Luca Albrisi, tra i fondatori. 

Sull'eterogeneità ha insistito, nel suo intervento alla manifestazione, anche il giornalista e scrittore Marco Albino Ferrari: "Vorrei che non si utilizzasse il termine ambientalisti. Siamo una parte della società civile attenta, che ha a cuore l’ambiente ma anche l’economia".

Foto di Marco Ranocchiari

Il non più e il non ancora

"C'è una montagna del non più, perché ormai evidentemente non funziona, e una del non ancora, di cui si vedono le avvisaglie ma che per affermarsi ha bisogno di un cambiamento culturale che può richiedere decenni", tuona dalla Panarotta Michele Nardelli, volto storico dell'ambientalismo trentino e autore di Inverno Liquido, lunga inchiesta sulla fine dell'epoca d'oro dello sci tra Alpi e Appennini.

Non sono più tanto rare le realtà imprenditoriali che puntano su una domanda che, sempre più spesso, cerca un rapporto intenso con la montagna che l'industria dell'oro bianco non può garantire. Homeland, a Montespluga in Lombardia, si fregia del titolo di "primo comprensorio sciistico senza impianti di risalita". Invece che battere piste, il comprensorio offre mappe, percorsi, guide, uscite organizzate e, assicura il responsabile Walter Bossi, sta portando visitatori anche da oltreoceano in una zona che altrimenti sarebbe abbandonata. Anche i comprensori tradizionali come Livigno e Bormio hanno iniziato a proporre sempre più percorsi gestiti senza impianti.

Eppure, nonostante ogni parte in causa si richiami nominalmente alla sostenibilità, le visioni sulla montagna si fanno sempre più polarizzate. Dal "Carosello" delle Dolomiti venete ‒ che vorrebbe collegarne i già mastodontici comprensori ‒ alle velleità di rinascita del Terminillo, “la montagna di Roma" ‒ con lo straordinario acceleratore delle Olimpiadi invernali del 2026 ‒ buona parte del mondo imprenditoriale e politico sembra portato ad andare avanti con lo stesso modello fino all'ultimo fiocco di neve.

Oltre la neve

Senza un cambio di rotta, lo scenario che si delinea vede da un lato i grandi comprensori, dotati di piste a tutte le altitudini e con risorse e know-how sufficienti, andare avanti abbastanza a lungo, magari con enormi costi ambientali ed energetici. Dall'altro i centri piccoli delle medie quote, con un bisogno disperato, oltre che di neve, di alternative.

"Le località sotto i 1.700 metri vedranno sempre meno neve. Non significa che nevicherà necessariamente di meno, ma che resterà al suolo per un tempo più breve", spiega Andrea Omizzolo di Eurac Research, coordinatore del progetto europeo Beyond snow, che mira ad "aumentare la resilienza socio-ecologica delle destinazioni a media altitudine. Un albergo di queste zone, quasi sempre a gestione famigliare, non può reggere senza turisti per due inverni consecutivi. Si rischia di andare verso il disastro finale per le comunità, lo spopolamento".

"Per questo”, prosegue Omizzolo, “cerchiamo di offrire strategie di transizione verso un'economia diversificata", che spazi dal turismo naturalistico a quello culturale ma anche ad altre attività economiche come l'agricoltura. Senza demonizzare lo sci: "Se un paese ha costruito da poco un nuovo impianto, o se fa parte del suo patrimonio storico-culturale, a volte conviene farlo funzionare il più a lungo possibile". Partendo da dieci aree pilota su sei Paesi alpini, il gruppo sta realizzando una mappa interattiva di vulnerabilità basata su una serie di parametri che così potrà essere utilizzata per tutti i comuni alpini.

Ma prima che climatico, a volte, il problema sembra legato alla tenacia delle abitudini. "In molte aree in cui lavoriamo le comunità dipendono da impianti piccoli, già vecchi e che a volte stanno già chiudendo. Spesso, paradossalmente, il primo scoglio è fare loro ammettere che hanno un problema".

 

Immagine: Alessio Soggetti, Unsplash

 

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