Il Segretario Generale dell'OPEC Haitham Al Ghais ha esortato i membri dell'OPEC+ a respingere le proposte per qualsiasi bozza di negoziazione a COP28 che abbia come obiettivo i combustibili fossili invece che le emissioni. A darne notizia è l’agenzia di stampa britannica Reuters, riferendosi a una lettera di Al Ghais datata mercoledì 6 dicembre e visionata venerdì 8 da Reuters, che sostiene di aver avuto conferma della sua veridicità da tre fonti. L’agenzia ha anche interpellato l’OPEC stessa, che ha però dichiarato di non voler commentare le comunicazioni con i propri membri, che continua a consigliare nel loro operato.

Il nodo della questione è la prima bozza di accordo che COP28 ha pubblicato martedì 5 dicembre (già superata da una seconda bozza pubblicata venerdì 8) in cui si parla di phase out dei combustibili fossili, cioè di loro “eliminazione graduale”. Il Segretario Al Ghais avrebbe quindi esortato i Paesi membri di OPEC+ a opporsi a ogni accordo che comprenda questa opzione invece di concentrarsi sulle emissioni di gas serra, parlando di “sproporzionata pressione contro i combustibili fossili” che potrebbe “raggiungere un punto di svolta con conseguenze irreversibili”.

Phase out o phase down?

La differenza tra phase out (eliminazione graduale) e phase down (riduzione graduale) dei combustibili fossili è cruciale nei negoziati in corso a Dubai, e l’adozione di una o l’altra strategia inciderebbe in modo diverso sul raggiungimento degli obiettivi climatici al 2030 e al 2050. Ma la menzione di uno o l’altro termine nell’accordo di COP28 sarebbe in ogni caso un traguardo notevole. Secondo gli scienziati, infatti, resta poco tempo per evitare le conseguenze irreversibili dei cambiamenti climatici, mentre l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha dichiarato nei giorni scorsi che i petrostati rischiano una grave crisi se non prendono sul serio la transizione energetica. Ecco perché questa presa di posizione dell’OPEC è un duro colpo, anche se non del tutto inaspettato, per i negoziati COP.

L’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) è l’organizzazione che riunisce i grandi esportatori di petrolio, cioè proprio gli Stati le cui economie dipendono dai combustibili fossili: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Venezuela, Qatar, Indonesia, Libia, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Nigeria, Ecuador, Gabon, Angola, Guinea Equatoriale e Congo. A questi 13 membri se ne affiancano poi altri 11 nell’OPEC+: Brasile (la cui adesione sarà però effettiva da gennaio 2024), Messico, Kazakistan, Azerbaijan, Bahrein, Brunei, Malesia, Oman, Sudan, Sudan del Sud e Russia.

Il viaggio di Putin negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita

Proprio la Russia è stata protagonista negli stessi giorni di un altro caso internazionale, con la visita che il presidente Vladimir Putin ha compiuto il 6 dicembre prima ad Abu Dhabi, la capitale emiratina, per incontrare il Presidente Mohammed bin Zayed Al Nahyan, poi a Riyad, la capitale saudita, per incontrare il principe ereditario Mohammed bin Salman.

È il terzo viaggio all’estero per Putin da quando a marzo la Corte penale internazionale ha emesso su di lui un mandato di arresto con l’accusa di aver compiuto crimini di guerra in Ucraina, possibile perché né gli EAU né l’Arabia Saudita riconoscono la giurisdizione della Corte penale internazionale.

Sembra peculiare che Putin abbia scelto di recarsi negli Emirati proprio in concomitanza con lo svolgimento della COP28, ma non si tratterebbe di una sfida, anzi sarebbe più “casuale”, secondo il parere di Mattia Bernardo Bagnoli, corrispondente diplomatico ANSA ed ex capo dell’ufficio di Mosca, nonché autore del libro Modello Putin (People, 2021).

Il quotidiano The Moscow Times, citato da Agenzia Nova, sostiene che la visita sia anzi motivata dall’insoddisfazione dei Paesi OPEC+ sulla cooperazione con Mosca. In particolare l’Arabia Saudita avrebbe lamentato una mancata trasparenza della Russia sui dati sull’export di petrolio nazionale.

Il viaggio rientra quindi in una strategia geopolitica che vede Putin, vicino alle elezioni presidenziali, “andare in territori amici, dove è accolto con favore, per dimostrare che lui non è isolato internazionalmente e la Russia fa ancora parte dei giochi”, aggiunge Bagnoli. Anzi, Putin si è complimentato con Mohammed bin Zayed Al Nahyan per lo sforzo nell’organizzare “uno dei più importanti forum internazionali sul clima, la COP28” in cui “si stanno sintetizzando i primi risultati degli Accordi di Parigi”. Risultati a cui lui stesso però non accenna a voler contribuire: “In passato era scettico sulla natura antropica del riscaldamento globale, poi ha avuto un cambio di passo e ora sembra essere di nuovo in bilico”.

La Russia non ha una strategia di decarbonizzazione, ed è un problema

Di certo, però, Putin vede con favore il Fondo Loss and Damage, nell’ottica dei Paesi più ricchi che devono risarcire quelli più poveri, perché sia la Russia che la Cina, che in altri ambiti si presentano come super potenze economiche, in questo caso preferiscono approcciare la questione da Paesi in via di sviluppo. “L’Unione Sovietica ‒ spiega Bagnoli ‒ ha contribuito molto in termini di emissioni al riscaldamento globale, ma poi la sua disgregazione ha fatto sì che la Russia si spartisse con altri Stati questa responsabilità, tenendo per sé una quota relativamente bassa. Ora non ha nessun interesse a salire sul treno della rivoluzione verde, e infatti le sue aziende maggiori di gas, plastica e petrolio continuano a fare business as usual”.

Una miopia di Mosca che la riduzione dell’export di gas all’Europa in seguito alla guerra ucraina non sembra aver corretto. “C’è stata qualche iniziativa di Green Compliance da parte di alcune aziende quotate in borsa e che operano con l’Europa, come Novatek, ma non esiste una strategia statale russa per la transizione energetica ‒ conclude Bagnoli ‒ nonostante i problemi che inizia ad avere. Per sostituire la perdita sul mercato europeo, per esempio, sta cercando di fare pressioni sulla Cina per la costruzione di nuovi gasdotti. Ma la Cina sa bene che questi progetti sono lunghi da portare a termine, prevedono contratti venti o trentennali, periodo alla fine del quale non avrà più bisogno di tutto quel gas. La Russia, quindi, inizia a essere in difficoltà da questo punto di vista, ma non ha ancora una soluzione.”

 

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Photo by COP28  Christopher Pike