Dopo 28 anni la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) opera ancora senza un regolamento interno formalmente concordato perché non è mai stato trovato un accordo sulla regola 42 relativa al processo decisionale. Tale regola prevede due opzioni. L’opzione “A” prevede che sia possibile adottare decisioni a maggioranza dei due terzi delle Parti presenti e votanti nel caso in cui sia stato esaurito ogni sforzo per raggiungere il consenso. L’opzione “B” prevede che le decisioni, escluse quelle finanziarie, debbano essere prese sulla base del consenso.

Come ricostruito nell’articolo Unanimity or standing aside? Reinterpreting consensus in United Nations Framework Convetion on Climate Change negotiations pubblicato a febbraio 2023 sulla rivista International Environmental Agreements, nella mancanza di un accordo su una delle due opzioni, è opinione comune che durante le COP dell’UNFCCC le decisioni siano prese per consenso, il quale è stato spesso interpretato come unanimità (cioè nessuna opposizione espressa) dando così, di fatto, a ciascuno degli oltre 190 Paesi il diritto di veto. Secondo gli autori, per superare questo blocco dovrebbe essere potenziato lo strumento (informale) dello standing aside, che può essere usato quando “le parti non sostengono pienamente la proposta o forse non la sostengono affatto, ma sono disposte a cedere al desiderio del resto del gruppo per una serie di motivi”. 

Altri osservatori sostengono che si dovrebbe cambiare il sistema di presa di decisioni verso un voto di maggioranza. Gli autori dell’articolo Why do climate change negotiations stall? Scientific evidence and solutions for some structural problems pubblicato a marzo 2023 sulla rivista Global Discourse spiegano che questo potrebbe essere fatto in due modi: adottare il regolamento interno non ancora adottato oppure emendare la Convenzione.

“Attualmente, la pratica del processo decisionale consensuale implica essenzialmente risultati da minimo comune denominatore”, spiega a Materia Rinnovabile Joanna Depledge, esperta di negoziati internazionali sul cambiamento climatico al Cambridge Centre for Environment, Energy and Natural Resource Governance, nel Regno Unito. “In altre parole, le decisioni possono essere forti solo quando le richieste sono meno ambiziose, altrimenti ci sarà sempre qualcuno che si oppone.  [Mercoledì 6 dicembre] Simon Steill, Segretario esecutivo dell'UNFCCC, ha dichiarato in una conferenza stampa che i governi devono ‘evitare la politica del minimo comune denominatore’.  Ma con una prassi decisionale basata sul consenso, questo è ciò che accade.”

Pro e contro di un meccanismo decisionale basato sul voto

Joanna Depledge continua spiegando che forzare il passaggio a un meccanismo decisionale basato sul voto, però, porterebbe con sé sia dei pro che dei contro. “Naturalmente, la costruzione del consenso attraverso il dibattito e la discussione può significare che le parti precedentemente meno ambiziose decidono di andare più lontano e più velocemente di quanto farebbero altrimenti, e questo è fantastico.  Ma nel complesso le decisioni sono più deboli di quanto lo sarebbero con una regola di voto. Questo perché, in generale, nel mondo c'è un'ampia maggioranza di Paesi più ambiziosi e vulnerabili: i piccoli Stati insulari, i Paesi meno sviluppati, gran parte del Gruppo africano, di solito l'UE, gran parte dell'America Latina e altri. Questi vogliono vedere azioni e decisioni forti.

Una soglia di voto a supermaggioranza, forse 7/8 o addirittura 9/10, consentirebbe alla stragrande maggioranza dei Paesi di rilasciare dichiarazioni più incisive a sostegno di politiche decisive, come l'eliminazione graduale dei combustibili fossili e la triplicazione delle energie rinnovabili. Sospetto che entrambe passerebbero con queste supermaggioranze. E ciò sarebbe il pro del voto: permettere alla comunità internazionale di mettere da parte una manciata di detrattori e di esprimere la propria volontà comune. Ma il contro sarebbe l'isolamento di questi detrattori, che potenzialmente potrebbero includere Paesi potenti, come gli Stati Uniti, la Cina o l'India. Non sarebbe consigliabile prendere decisioni che mettano da parte questi importanti emettitori, la cui cooperazione è assolutamente vitale per l'azione sul clima. La messa in minoranza degli Stati Uniti, ad esempio, potrebbe portare a un contraccolpo interno, che è l'ultima cosa che vogliamo. È un equilibrio delicato.”

Il phase out e dei combustibili fossili e il diritto di veto

All’inizio della COP28, il 31 ottobre, oltre 100 paesi (tra cui i 27 dell’UE) riuniti nella High Ambition Coalition hanno confermato la volontà di rispettare l’Accordo di Parigi e hanno ribadito la necessità del phase out dei combustibili fossili. Le opzioni di phase out (eliminazione graduale) e phase down (riduzione graduale) erano presenti nella bozza di testo di venerdì 8 dicembre del Global Stocktacke previsto dall’Accordo di Parigi e pubblicata da UNFCC venerdì 8 dicembre. La formulazione più forte dell'opzione che prevede "un'eliminazione graduale dei combustibili fossili in linea con la migliore scienza disponibile" è in linea con quanto richiesto dalla High Ambition Coalition.

La settimana scorsa, però, il Segretario Generale dell'OPEC Haitham Al Ghais ha esortato i membri dell'OPEC+ a respingere le proposte di qualsiasi testo in fase di negoziazione che abbiano come obiettivo i combustibili fossili piuttosto che le emissioni. E lunedì 11 dicembre nel primo pomeriggio è stata presentata l’ultima bozza del Global Stocktake, un testo teoricamente pronto per essere adottato, ma dove tutte le opzioni sono riviste al ribasso. Nella testo infatti la frase “phase out delle fonti fossili” è stata rimossa e al suo posto trova posto spazio la seguente dicitura: “Ridurre sia il consumo che la produzione di combustibili fossili, in maniera equa e ordinata, in modo da raggiungere emissioni nette zero netto entro, prima o intorno al 2050, secondo quanto inteso dalla scienza”.

"Il processo UNFCCC soffre di una doppia carenza. Basandosi su un approccio fondato sul consenso, ha di fatto conferito agli Stati, compresi quelli le cui economie dipendono dai redditi da combustibili fossili, il potere di dettare le regole dell'azione internazionale di mitigazione”, spiega a Materia Rinnovabile Sebastien Duyck, giurista senior al Center for International Environmental Law CIEL. “Inoltre, consentendo alle imprese responsabili della maggior parte delle emissioni di partecipare alle riunioni, il processo UNFCCC ha rafforzato l'influenza politica di questa industria e la sua capacità di ostacolare un'efficace eliminazione dei combustibili fossili.

Il tempo a disposizione degli Stati per arginare il ruolo dell'industria dei combustibili fossili nella definizione delle politiche climatiche internazionali e per adottare nuovi forum per l'azione intergovernativa volta a eliminare gradualmente i combustibili fossili è davvero poco. Storicamente, le lobby aziendali hanno svolto un ruolo eccessivo e controproducente nei negoziati delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Hanno contribuito a garantire che i negoziati non affrontassero la causa principale della crisi climatica, i combustibili fossili, e a far sì che l'UNFCCC continui a non riconoscere la necessità di eliminarli gradualmente. Hanno anche minato l'efficacia dell'azione per il clima, distogliendo l'attenzione dalle vere soluzioni e orientandola verso quelle false, come le compensazioni di carbonio, la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la cattura diretta dell'aria, tra le altre".

 

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Anche la distinzione tra combustibili fossili “abated” (abbattuti) e “unabated” (non abbattuti) e il significato dei due termini sono oggetto di un acceso dibattito, con molti commentatori che mettono in guardia dalla possibilità di creare una scappatoia attraverso l'ambiguità giuridica. “Penso che il linguaggio cambierà molto [durante le negoziazioni] ‒ spiega Joanna Depledge ‒ Unabated è un termine importante qui. I più ambiziosi lo vorranno eliminare, poiché essenzialmente consente la continuazione dell’uso di combustibili fossili. Ma questa tecnologia non è facilmente disponibile a un prezzo accessibile. […] Se la prospettiva dell’avvento della CCS verrà mantenuta ed enfatizzata, ciò incoraggerà maggiori investimenti nei combustibili fossili, che è esattamente ciò che deve essere evitato in questo momento.”

Spazi di governance climatica al di fuori dell’UNFCCC

Prima dell’inizio della COP28 sono stati molti i commentatori che hanno parlato di fallimento della diplomazia climatica, la quale resta però l’unico spazio formale per prendere decisioni, in attesa che si creino spazi di governance alternativi.

"La voce della società civile e dei rappresentanti delle popolazioni indigene è sempre più limitata alla conferenza, mentre gli abitanti del Paese ospitante non possono esprimere opinioni critiche a causa delle leggi repressive del Paese. Non possiamo permetterci di lasciare che gli interessi dei combustibili fossili dominino il processo decisionale su una questione di vita o di morte per l'umanità e non possiamo permettere che una manciata di Paesi blocchi il progresso quando le cose sono ormai scritte sul muro”, dice a Materia Rinnovabile Lili Fuhr, Fossil Economy program director al Center for International Environmental Law (CIEL).

“Mentre molti Paesi e la società civile continuano a lottare qui alla COP28 per un'eliminazione completa, equa, rapida e finanziata di tutti i combustibili fossili, dobbiamo anche affrontare il fatto che il mondo ha urgentemente bisogno di spazi di governance alternativi, complementari ed efficaci per realizzare l'eliminazione dei combustibili fossili. A questo proposito, accolgo con favore i progressi compiuti negli ultimi due mesi e negli ultimi giorni per garantire l'adesione politica a un Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili."

L’iniziativa per questo trattato è portata avanti da 11 nazioni (Vanuatu, Tuvalu, Fiji, Solomon Islands, Tonga, Niue, Timor-Leste, Antigua e Barbuda, Palau, Colombia, Samoa) con il supporto del Parlamento Europeo e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’iniziativa ha anche il sostegno di 2.329 organizzazioni della società civile, 97 città e governi sub-nazionali e 623.178 cittadini.

Il ruolo dei meccanismi economici nel far avanzare l’azione sul clima

In un articolo pubblicato nel marzo di quest’anno sulla rivista Global Discourse, Joanna Depledge e i coautori sostengono che strumenti economici quali il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’UE potrebbero contribuire ad accelerare l’azione per il clima, indipendentemente dal modo in cui vengono prese le decisioni nell’ambito dell’UNFCCC.

Nel mondo reale, la transizione a basse emissioni di carbonio sta già iniziando, in parte grazie alle decisioni prese nei negoziati internazionali sul cambiamento climatico ‒ conclude Depledge ‒ Il prezzo della generazione di energia da fonti rinnovabili sta crollando ovunque, si stanno diffondendo i veicoli elettrici e l'intensità di carbonio della crescita economica sta diminuendo. Queste sono tutte buone notizie e significano che, sempre più spesso, gli investimenti vengono indirizzati verso alternative a basse emissioni di carbonio. A mio avviso, questa transizione è ormai inarrestabile, ma procede troppo lentamente. Deve accelerare e per questo abbiamo bisogno di segnali molto forti e inequivocabili dall'alto, ovvero dai negoziati internazionali”.

 

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Photo by COP28 / Walaa Alshaer