La COP28 di Dubai ha per la prima volta messo al centro il rapporto tra agroalimentare e clima, ma i risultati concreti sembrano pochi e scetticismo e preoccupazione restano, soprattutto considerando il fatto che dal 2015 non ci sono stati progressi nella lotta alla fame nel mondo e anzi sono aumentate le persone malnutrite.

A fornire queste indicazioni è la 18ª versione italiana dell’Indice Globale della Fame (Global Hunger Index - GHI), presentato il 29 novembre 2023, significativamente alla vigilia della COP28.

COP28, sistemi alimentari e FAO

Alla COP28 152 Paesi, tra cui l’Italia, hanno sottoscritto la Dichiarazione degli Emirati sull’agricoltura sostenibile, i sistemi alimentari resilienti e l’azione per il clima, che si impegna a mettere la trasformazione dei sistemi alimentari al centro di un’azione più forte per il clima. Il 10 dicembre, poi, la giornata è stata dedicata a cibo, agricoltura e acqua, occasione in cui la FAO ha lanciato una roadmap globale per eliminare la fame restando entro i limiti di 1,5°C di crescita della temperatura globale.

Un percorso che prevede azioni nei prossimi tre anni su transizione energetica, colture, pesca, acquacoltura, spreco alimentari, foreste e zone umide. L’obiettivo è riformare i sistemi alimentari per ottenere pozzi di carbonio (come oceani e foreste) entro il 2050, raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2035 e ridurre le emissioni di metano del 25% entro il 2030.

Tuttavia nel Global Stocktake non si registrano menzioni alla riduzione delle emissioni di gas serra provenienti dai sistemi alimentari, oltre al fatto che quest’anno si è registrata un’ampia presenza di rappresentanti delle multinazionali dell’agroalimentare ai negoziati della COP28 che, oltre a sponsorizzare diversi eventi, in alcuni casi hanno partecipato come delegati degli Stati.

I dati dell’indice globale della fame

I risultati della COP28 allarmano gli scettici anche perché, secondo l’Indice Globale della Fame, i progressi per contrastare la fame nel mondo sono in stallo dal 2015. Attualmente il livello è grave o allarmante in 43 Paesi, 750 milioni di persone nel mondo soffrono la fame e 735 milioni di persone sono malnutrite.

Le cause sono da ricercare in disastri climatici, guerre, crisi economiche e pandemie, mentre le conseguenze ricadono soprattutto sulle persone più giovani. Ma l’instabilità alimentare attuale significa rischiare una vita adulta di povertà estrema, fame e impossibilità di proteggersi adeguatamente dai disastri climatici e da altre situazioni di crisi.

Il problema riguarda soprattutto le donne, che sono il 60% delle vittime della fame acuta, sovraccaricate da lavoro di assistenza non pagato le sovraccarica, tanto da triplicare la probabilità di non accedere a lavori retribuiti rispetto agli uomini.

Il rapporto calcola il punteggio GHI di ogni Paese sulla base dello studio di quattro indicatori (denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita infantile e mortalità dei bambini sotto i 5 anni). È tra i principali report internazionali sulla misurazione della fame nel mondo, curato da CESVI per l’edizione italiana e redatto annualmente da Welthungerhilfe e Concern Wordlwide, organizzazioni umanitarie che fanno parte del network europeo Alliance2015.

Il cambiamento climatico causa insicurezza alimentare

Il cambiamento climatico ha un impatto diretto e significativo sull’insicurezza alimentare: all’aumentare di temperature e disastri climatici, crescono la difficoltà e l’incertezza nel produrre alimenti. Gli effetti sono particolarmente evidenti nei Paesi poveri: il 75% di chi vive in povertà nelle zone rurali si affida alle risorse naturali, come foreste e oceani, per la sopravvivenza, essendo quindi particolarmente vulnerabile ai disastri climatici.

E secondo il World Food Program, l’80% delle persone che soffrono la fame sul Pianeta vive in zone particolarmente colpite da catastrofi naturali. Secondo la Banca mondiale, dal 2019 al 2022 il numero di persone che vivono in insicurezza alimentare è aumentato da 135 milioni a 345 milioni, sotto l’effetto combinato delle varie crisi ed emergenze.

I passi indietro e i Paesi messi peggio

Il punteggio del GHI globale per il 2023 è 18,3, considerato moderato, quasi un punto in meno rispetto al 2015 (in cui era 19,1). Dal 2017 il numero di persone denutrite è aumentato da 572 milioni a circa 735 milioni. Le regioni con i dati peggiori sono Asia meridionale e Africa Subsahariana (27,0 per entrambe: “fame grave”). Queste regioni negli ultimi vent’anni hanno sempre registrato i più alti livelli di fame e dal 2015 la loro situazione è in stallo.

Al momento 9 Paesi soffrono una “fame allarmante”: Burundi, Lesotho, Madagascar, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sud Sudan e Yemen. In altri 34 Paesi è grave. Dal 2025 la fame è aumentata in 18 Paesi (situazioni moderate, gravi o allarmanti) e in altri 14 il calo è stato trascurabile (inferiore al 5%), mentre in 7 Paesi il miglioramento è superiore al 5% dal 2015: Bangladesh, Ciad, Gibuti, Mozambico, Nepal, Laos e Timor Est.

Al ritmo attuale, 58 Paesi non raggiungeranno un livello di fame basso entro il 2030. A destare le maggiori preoccupazioni nel 2023 sono Afghanistan, Haiti, Nigeria, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Yemen, oltre a Burkina Faso e Mali nel Sahel: tra i fattori chiave ci sono conflitti e cambiamento climatico, nonché la recessione economica.

Prime vittime: le giovani donne

Tra le persone giovani nel mondo, una su cinque non lavora, né è impegnata in corsi di studio o formazione, mentre la pandemia di Covid ha causato la perdita di milioni di posti di lavoro, colpendo in particolarmente la fascia giovanile, che anche quando lavora ha il doppio delle probabilità degli adulti di vivere in povertà estrema, con meno di 1,90 dollari al giorno, e molte più probabilità di essere impiegata in modo informale (lavoro nero).

Questo quadro è ancora più fosco per le ragazze, su cui continua a ricadere il lavoro di assistenza non retribuito, che sottrae loro tempo, energie e opportunità per la propria formazione e per accedere a impieghi retribuiti. È ormai noto, seppur senza risposte, che il lavoro di cura non retribuito è uno dei fattori che contribuiscono al protrarsi della disuguaglianza di genere ed è una delle cause principali della povertà e della fame.

Entro la metà del secolo, lo scenario peggiore di crisi climatica potrebbe spingere fino a 158,3 milioni di donne e ragazze in più nella povertà (16 milioni in più rispetto a uomini e ragazzi), mentre l’insicurezza alimentare colpirà almeno 236 milioni in più di donne e ragazze (rispetto ai 131 milioni di uomini e ragazzi). Al tasso attuale di progressi sul divario di genere nel mondo, inoltre, la prossima generazione di donne dedicherà ancora al lavoro non pagato di cura e domestico 2,3 ore in più degli uomini.

Il focus del rapporto quest’anno è proprio su come gli attuali sistemi alimentari hanno pregiudicato ragazze e ragazzi, che erediteranno sistemi insostenibili, iniqui, non inclusivi e sempre più esposti alle conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo demografico under 25 è importante e in crescita, in particolare proprio nei Paesi con problemi di insicurezza alimentare: costituisce il 16% della popolazione del globo (1,2 miliardi di persone), mai così ampio nella storia, e in gran parte vive in Paesi a basso e medio reddito di Asia meridionale, Asia orientale e Africa, proprio dove insicurezza alimentare e malnutrizione sono massime e persistenti.

La situazione in Italia

Anche l’Italia è sempre più colpita dalla crisi climatica. La regione Mediterranea registra un riscaldamento che supera del 20% l’incremento medio globale, con una forte riduzione delle precipitazioni. Secondo le previsioni, nel 2050 nei giorni di forte pioggia l’intensità delle precipitazioni aumenterà in ogni scenario, le notti tropicali in cui la temperatura non scende mai sotto i 20°C arriveranno fino a 18 in un anno e i giorni consecutivi senza pioggia aumenteranno, alimentando gli incendi.

Nelle città, i cambiamenti climatici amplificano i rischi per la salute, con aumento della mortalità e dei casi di malattie cardiovascolari e respiratorie. Questo mentre nel 2080 calerà fino a -40% la portata di acqua nei fiumi e nei prossimi decenni il rischio d’incendi salirà del 20%. I cambiamenti climatici aumentano anche la diseguaglianza economica tra le regioni: gli impatti più negativi sono maggiori nelle zone più povere, con indicatori di “uguaglianza” che peggiorano fino al 61% nel 2080.

 

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Immagine: Ahmed Akacha, Pexels