Se guardiamo lo scenario di un'Europa a zero emissioni nel 2050, e studiamo le varie strategie per arrivarci, le biomasse forestali e agricole sono una delle fonti di energia più dibattute e divisive. Il loro ruolo negli scenari net zero è una fonte di conflitto da quasi due decenni, dentro le istituzioni, tra i Paesi dell'Unione, tra i movimenti ambientalisti e le aziende, e anche all’interno degli stessi movimenti.

In Europa ci sono più di 50.000 aziende nel settore dell’energia da biomasse, per lo più PMI. Più della metà degli impianti sono sotto i 5 megawatt: le dimensioni ‒ per intenderci ‒ di un centro sportivo o di un albergo. Ma ci sono poi realtà più grandi e controverse, come, in Italia, quella nella valle del Mercure in Calabria (ex Enel, oggi di Sorgenia), o la Drax che, secondo i dati Ember, ha il poco invidiabile ruolo di singolo principale emettitore di CO2 nel Regno Unito per il settore energia.

È qui che nasce il conflitto, la complessità nell'affrontare politicamente il ruolo di un settore che tiene insieme realtà molto diverse tra loro, dalla piccola filiera locale di montagna, che usa solo scarti delle imprese forestali del territorio, alle grandi centrali che usano materia prima primaria (quindi alberi tagliati per essere bruciati). Le biomasse sono una fonte di energia rinnovabile, ma emettono comunque carbonio nell'atmosfera.

Come spiega Michael Norton, Environment Programme Director di EASAC, il consiglio che riunisce le accademie delle scienze europee, “l'industria delle bioenergie è in grado di regolarsi e anche di usare in modo sostenibile le foreste. Il sistema però diventa dannoso quando diamo incentivi alle biomasse come se fossero fotovoltaico ed eolico, perché mettiamo il mercato in condizioni di voler bruciare sempre più risorsa, quindi sempre più alberi e sempre meno scarti”. Ed è su questo che dovrà intervenire il prossimo aggiornamento della direttiva RED sulle rinnovabili.

Un aiuto alla povertà energetica

È una situazione non facile da affrontare, perché le biomasse forestali per produrre energia toccano anche problemi come tenuta degli ecosistemi, contrasto all'abbandono delle aree rurali e di montagna, diversità dei territori e delle loro esigenze. Come spiega Irene di Padua, Policy Director di Bioenergy Europe, “le biomasse sono una fonte di energia decentralizzata e circolare, ci permettono di non sprecare i residui della produzione agricola e forestale. Inoltre, sono un'alternativa che permette a tante famiglie vulnerabili di affrontare la povertà energetica”.

Sono due ragioni solide a favore di questo settore e del suo ruolo negli scenari di decarbonizzazione, se contiamo che metà del legno raccolto per fare mobili è un residuo che può essere usato per produrre energia e che in Europa ci sono 50 milioni di famiglie in povertà energetica. La sostenibilità del settore però continua a essere un problema da affrontare su scala: oggi è il 10% dell'energia usata nel mondo e potrebbe crescere da tre a sei volte entro il 2050.

Strumento indispensabile per la mitigazione

Quando sono state scritte le prime direttive sulle fonti rinnovabili di energia, le biomasse sono state inserite anche perché erano (e sono tutt'ora) la rinnovabile più utilizzata, e quindi erano necessarie per raggiungere i vari obiettivi. Col tempo sono stati resi più stringenti i criteri di sostenibilità, ma nel frattempo lo scenario ha iniziato a cambiare: fotovoltaico ed eolico hanno aumentato le loro quote, mentre le foreste europee hanno iniziato a mostrare gravi segni di stress. Da un lato c'è la crisi climatica (attacchi di insetti come il bostrico sulle Alpi e in Europa centrale, gli schianti da vento, gli incendi), dall'altro l'aumento dei prelievi: i pozzi di carbonio d'Europa stanno perdendo la propria capacità di assorbimento della CO2.

Un fondamentale strumento di mitigazione del riscaldamento globale si sta indebolendo e ancora non sappiamo di preciso perché. Il continente ha un problema di statistiche e conteggi forestali, quindi è difficile individuare le cause in modo puntuale o stabilire da cosa dipenda questa riduzione della capacità di assorbimento, ma è un fatto che dagli anni Novanta la produzione di biomassa è più che raddoppiata e che il principale driver sono state le politiche energetiche. “Anche solo un principio di precauzione dovrebbe farci smettere di incoraggiare i tagli di alberi per produrre energia. Dobbiamo imparare a distinguere tra biomassa buona e biomassa cattiva”, spiega Norton.

Biomassa buona e biomassa cattiva

Sostanzialmente, dal punto di vista di molti scienziati e della maggior parte delle organizzazioni ambientaliste, la biomassa “buona” è quella residuale, di filiera corta, che consente di bruciare legno che altrimenti sarebbe sprecato, alla fine dell'uso a cascata, o che magari è già a terra per altri disturbi, come il bostrico o le tempeste di vento. La biomassa “dannosa” è l'incentivo a tagliare direttamente alberi per produrre energia, che alimenta il flusso in modo artificiale rispetto alle normali dinamiche di mercato. Qui c'è uno scontro tra due narrative opposte e l'unica guida possono essere i numeri. Secondo uno studio del Joint Research Center della Commissione europea, negli ultimi quindici anni l'uso della biomassa in Europa è passato da 759 a 947 milioni di metri cubi, l'uso di quella primaria (non scarti) è cresciuto da 438 milioni di metri cubi a 551 milioni di metri cubi. La metà finisce bruciato come energia, che si tratti di legna da ardere, pellet o cippato, i vari formati con cui la biomassa diventa elettricità o calore. In sostanza l'Europa sta bruciando sempre più alberi, e non sono solo rami o scarti.

Il punto di equilibrio

Trovare il punto di equilibrio diventa ancora più complicato se aggiungiamo altri due fattori. Il primo riguarda gli usi, il secondo l'evoluzione tecnologica. Come spiega di Padua di Bioenergy Europe, oggi l'uso energetico delle biomasse è prevalentemente residenziale, ma in futuro c'è margine di crescita ampio per i settori hard-to-abate, quelli più difficili da decarbonizzare, che non possono fare affidamento sull'intermittenza delle rinnovabili e che guardano con interesse al potenziale delle biomasse per rimpiazzare il fossile: industria chimica, del cemento, della carta. “I produttori di cemento stimano il 60% di aumento di combustibili alternativi e rinnovabili entro il 2030 e la metà di questa crescita dovrebbe venire dalla bioenergia, che ha un potenziale energetico adatto a queste produzioni così intensive”.

Insomma, la fonte di energia più antica, il legno, potrebbe essere la risposta tecnologica ai problemi energetici più avanzati, nei settori che per ultimi raggiungeranno la sostenibilità perché hanno emissioni troppo complicate da abbattere. E poi c'è il ruolo dell'innovazione: negli scenari di crescita della bioenergia viene attribuito un ruolo importante alla BECCS (Bioenergy and Carbon Capture and Storage), la cattura e stoccaggio della CO2 prodotta da bioenergia. L'IPCC prevede un assorbimento tramite BECCS fino a 16 gigatonnellate di CO2 al 2100, una variabile che al momento è solo un'ipotesi, visto che siamo ancora nella fase dei primi prototipi, ancora più indietro di quanto siamo per la CCS.

Il punto finale sul futuro delle biomasse non è la loro legittimità a essere inserite negli scenari di decarbonizzazione delle economie avanzate: contro la crisi climatica, e per l'uscita dai combustibili fossili, non si può fare gli schizzinosi. Il punto è quali biomasse utilizzare, quanto devono essere strette o larghe le maglie degli incentivi, se un taglio a raso per sfamare una grande centrale è la stessa cosa di una piccola infrastruttura locale che usa le ramaglie di un cantiere forestale o i residui di una segheria.

Anche perché qui contano le scale temporali: la neutralità climatica delle biomasse come fonte di energia si basa sul principio che ciò che stiamo bruciando a un certo punto ricrescerà, assorbendo la CO2 emessa e mettendoci in parità. Come spiega Norton, la falla di questo ragionamento è che “il ciclo per raggiungere questa parità può essere di trenta, cinquanta, settant’anni, prima che la foresta ricresca, che è esattamente la finestra di tempo entro la quale dobbiamo limitare al massimo le emissioni per stabilizzare il clima. Noi quelle emissioni possiamo anche non contarle nei nostri inventari, come stiamo facendo, ma nell'atmosfera ci finiranno comunque”.

 

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