Una rivoluzione che, per una volta, pone l’Italia all’avanguardia in Europa. 

Su un tema che è quello su cui forse collezioniamo il numero più alto di infrazioni, anche molto costose come quelle sulle discariche: i rifiuti. Si trattava di poche righe che però forse meglio di tante parole e corposi disegni di legge, e senz’altro in controtendenza con le non-scelte di politica ambientale praticate in questi anni dai governi di ogni colore che si sono in Italia succeduti alla guida del paese, hanno determinato una normativa ambientale avanzata, un cambiamento nello stile di vita di tanti cittadini, il sostegno a un’innovazione tecnologica enviroment-friendly in grado di creare nuova occupazione e sostenere la riconversione industriale di un settore importante quale la chimica.

In questi anni, solo il cosiddetto “ecobonus” per le ristrutturazioni edilizie – di cui, ancora mentre scrivo, si rinvia incomprensibilmente la stabilizzazione – ha svolto un’analoga funzione di stimolo di un settore economico gravemente in difficoltà. Chimica ed edilizia sono (stati) due settori fondamentali per lo sviluppo del paese, in termini di ricchezza prodotta e di lavoro. 

Ma oggi, con delle analogie che confermano come green economy non sia un settore ma un modo diverso di fare economia, entrambi per sopravvivere e avere un futuro devono riconvertirsi: la chimica cambiando la base di risorse con cui alimentare i propri cicli produttivi – passando dalle fonti fossili alle risorse biologiche rinnovabili – la seconda puntando a ristrutturazioni, riqualificazioni, rigenerazioni urbane e non sull’ulteriore espansione del costruito. 

Ma servono politiche, anche semplici come un divieto di produrre un oggetto molto diffuso o uno sconto fiscale. Diversamente, le innovazioni positive che la ricerca e le sue applicazioni tecnologiche ci offrono rischiano di faticare e la storia delle fonti rinnovabili – sempre più competitive, ma osteggiate con pervicacia da tutti i ministri dello Sviluppo economico – è un brutto esempio di “politica inconsapevole” che perde occasioni: oggi metà dell’energia elettrica prodotta in Italia proviene da fonti rinnovabili e mezzo milione di cittadini ha un impianto fotovoltaico sopra il tetto. I continui stop and go governativi hanno però messo in crisi le aziende e non hanno saputo favorire la creazione di una filiera che avrebbe garantito occupazione duratura.

Il caso degli shopper è invece un caso positivo: quando a dicembre 2006 introducemmo la norma che prevedeva il divieto entro tre anni della commercializzazione di shopper non biodegradabili, gli ambientalisti esultarono così come la parte più innovativa della chimica italiana. Molti altri iniziarono a preparare le azioni lobbistiche contrarie, consapevoli che in Italia “una proroga non si nega a nessuno”. E in effetti, con il successivo Governo Berlusconi l’entrata in vigore del divieto slittò dal 2010 al 2011. La pressione congiunta dei movimenti dei cittadini organizzati in forma associativa (Legambiente innanzitutto che di questa battaglia sui sacchetti di plastica è protagonista dalla fine degli anni ’80), la crescita delle entità industriali più innovative (organizzatisi nell’associazione Assobioplastiche), da una parte, e la consapevolezza delle lobby “plasticare” di essere in forte minoranza, dall’altra, per una volta fecero il miracolo e dal primo gennaio del 2011 non sono più commercializzabili in Italia shopper che non siano biodegradabili.

Il fatto che la riforma/rivoluzione fosse matura fu immediatamente confermato dal favore con cui i cittadini la accolsero: nei primi punti vendita della grande distribuzione che anticiparono l’entrata in vigore del divieto la risposta fu immediata e si ebbe una subitanea riduzione del 50% dell’uso dello shopper usa e getta.

Inoltre, tutti i sondaggi restituivano un forte sostegno dei cittadini al divieto: un caso pressoché unico dal momento che di fronte ai divieti i cittadini di solito storcono la bocca. Ma evidentemente la disponibilità di un’alternativa ecologicamente più sostenibile e l’evidenza – anche visiva – dell’impatto ambientale dei sacchetti di plastica sono risultate più forti delle abitudini. La plastica dei sacchetti è quella dell’“isola artificiale” nel Pacifico, è quella fonte di inquinamento diffuso presente praticamente ovunque, anche in luoghi che ci si aspetterebbe di trovare incontaminati, è il rifiuto più diffuso nei nostri mari, killer di tartarughe e mammiferi marini. Insomma un caso in cui il “nemico” degli ambientalisti era davvero indifendibile, persino senza ricorrere all’argomento, comunque fondato, del contributo ai cambiamenti climatici e all’effetto serra che la produzione di sacchetti in plastica comporta.

Nonostante ciò, e nonostante che anche Federchimica e Plastic Europe dopo iniziale opposizione avessero fatto “buon viso a cattiva sorte” (perché al loro interno c’è chi sa quale è l’unico possibile futuro della chimica), lobbisti e truffatori non si sono rassegnati e hanno provato a giocare la carta dell’Europa e della “libera circolazione delle merci”, garantita dai trattati europei, contro questa normativa italiana che nel frattempo però veniva studiata come la più avanzata in tutto il mondo.

Anche negli Stati Uniti, dove a Denver nell’ottobre del 2012 sollevammo grande interesse in legislatori, Ong e industrie. E non a caso da allora si sono osservate iniziative di stampo analogo a quella italiana in parecchi stati americani, dalla California alle Hawaii. Fu il Parlamento europeo stesso a incaricarsi di respingere un’interpretazione distorta dei trattati, quando poche settimane prima di essere rinnovato ha approvato la proposta di nuova direttiva sugli imballaggi in cui esplicitamente si fa salva la possibilità per gli stati membri di ricorrere ai divieti oltre che alle norme fiscali per raggiungere l’obiettivo di riduzione del 50% in tre anni dell’utilizzo degli shopper usa e getta. E per di più in quella stessa proposta si riconosce il valore fondamentale, nell’organizzare un’efficiente raccolta differenziata della frazione organica dei rifiuti, degli shopper compostabili, anche in questo caso sulla stessa linea della normativa italiana. Ancora: non è un caso se l’Italia ha già raggiunto quello che per gli altri paesi europei è ancora un obiettivo: le 180.000 tonnellate di shopper introdotte nel mercato italiano nel 2010, prima del divieto, sono diventate 90.000 nel 2013.

Una storia che si incarica anche di smentire un trito luogo comune per cui gli italiani sarebbero refrattari a comportamenti “ecologici”. “Mica siamo svizzeri!” (o inglesi, tedeschi ecc.): quanto volte abbiamo sentito (o anche usato noi stessi) questa frase? Invece, con gli shopper abbiamo visto come si possano cambiare rapidamente aspetti rilevanti dello stile di consumo (e quindi di vita), riutilizzando sempre più spesso la stessa sporta. Peraltro ogni volta che le istituzioni riescono a fare il loro dovere e approntare un sistema efficiente, i dati sono lì a dimostrare che “si può fare” (come dimostra il “Caso Milano”, la metropoli europea con il dato più alto di raccolta differenziata, oggetto di un articolo in questo stesso numero di Materia Rinnovabile). E come dimostrano altri casi di eccellenza nel Nordest o persino in Campania (si pensi a Salerno), studiati sistematicamente da chi all’estero vuole introdurre sistemi efficienti e moderni di raccolta differenziata.

L’Italia però è davvero il paese degli azzeccagarbugli e del “fatta la legge, trovato l’inganno” . Completata la “rivoluzione”, nel 2011 sono apparsi nei nostri negozi falsi sacchetti biodegradabili che hanno inquinato ambiente e mercato, truffando i consumatori. Si è quindi dovuto intervenire sul piano normativo per specificare che quelli ammessi al commercio erano solo quelli biodegradabili e compostabili secondo la normativa Ue (UNI EN 11432). Ma la farraginosità del percorso normativo e la furberia di questi operatori ha fatto sì che ancora oggi circa la metà degli shopper in commercio siano illegali. 

Il 21 agosto è entrato in vigore il DL 91 che prevede finalmente e in maniera esplicita sanzioni (anche pesanti perché si arriva sino a 100.000 euro) a chi continua a commercializzare sacchetti illegali e da qui nascono gli atti giudiziari della procura di Torino richiamati all’inizio di questo articolo. 

Finalmente possiamo dire che adesso è pieno il sostegno alla riconversione industriale della chimica italiana attraverso un primo shift dal fossile al vegetale rinnovabile quale materia prima. 

Un cambiamento in atto che rinnova i fasti della chimica italiana. Negli anni ’60 il boom economico italiano si fondò sull’industria dell’auto – la mitica 500 – e sulla chimica, il cui prodotto simbolo fu senz’altro il moplen del premio Nobel Giulio Natta.

Oggi un nuovo rilancio dell’economia, che “sblocchi” davvero il paese e non solo a parole, non può che basarsi sulla green economy, quella delle fonti energetiche rinnovabili, dell’efficienza energetica, della mobilità nuova e sostenibile, della rigenerazione urbana a consumo di suolo zero, dell’agricoltura di qualità e multifunzionale. Un’economia nuova, in cui il ruolo della “chimica verde” diventa fondamentale sia per tracciare il futuro, si guardi all’impianto di Crescentino di MossiGhisolfi Group il primo di una serie che già produce biocarburanti di seconda generazione e alla quale adesso ci si rivolge per dare un futuro industriale, ma pulito, a regioni come il Sulcis, in Sardegna, che hanno pagato con il declino il fatto di avere un’economia legata a risorse come il carbone o alla presenza di impianti privi di connessioni con la realtà del territorio, come lo stabilimento Alcoa di Porto Vesme. Con la chimica verde si possono anche operare quelle riconversioni industriali – si pensi al caso positivo di Porto Torres (sempre in Sardegna) che vede coinvolta Novamont insieme a Eni nella joint venture Matrìca – senza le quali non ci potrebbe essere speranza di mantenimento di posti di lavoro in molti siti industriali ormai obsoleti e antieconomici, a partire dalle tante raffinerie ineluttabilmente destinate ala chiusura, prima ancora da un mercato che si restringe (i consumi diminuiscono non soltanto a causa della crisi) che dal loro impatto ambientale, pure rilevante.

La bioraffinera di Porto Torres in Sardegna. Il più grande e innovativo polo integrato di chimica verde al mondo.

D’altronde è la stessa Commissione europea ad aver adottato il 3 febbraio del 2012 una strategia per indirizzare l’economia dei paesi dell’Unione verso un più ampio e sostenibile uso delle risorse rinnovabili. L’obiettivo dichiarato era quello di creare una società più innovatrice e un’economia low carbon, a emissioni ridotte. Anche attraverso l’uso sostenibile delle risorse rinnovabili provenienti dall’agricoltura a fini industriali, tutelando allo stesso tempo la biodiversità e l’ambiente.

Per una volta, sulla strada di un più ampio e sostenibile utilizzo delle risorse rinnovabili, indicata con chiarezza dalla Commissione europea, l’Italia esercita una leadership. Lo fa grazie innanzitutto al talento e alla tenacia di ricercatori che ormai un quarto di secolo fa hanno capito che quello era il campo da arare. Lo fa grazie ad alcuni imprenditori coraggiosi e lungimiranti che, nonostante difficoltà, impedimenti (si pensi ai comitati Nimby e a tanti politici che nella stessa Sardegna si battono contro la chimica verde) stanno scommettendo sull’innovazione amica dell’ambiente per realizzare impianti che potranno essere “modello” nel mondo. E lo fa grazie anche a un semplice divieto, voluto ostinatamente da un’associazione ambientalista, che mette fuorilegge un prodotto di uso più che comune.

Un piccolo esempio di buona politica che meriterebbe di essere replicato su vasta scala.

 
Immagine: © Huguette Roe / Shutterstock