Un biocombustibile “buono” derivante da una coltura dedicata all’energia non esiste. Secondo Vandana Shiva, fisico e fondatrice del movimento Navdanya (Nove semi), tutti i biocarburanti che sottraggono alla produzione di alimenti terreno agricolo, o che – ancora peggio – derivano direttamente da cereali o da altri prodotti destinati all’alimentazione umana sono da condannare, perché ripropongono un modello basato sui sussidi, sullo spreco di energia, su una logica agroindustriale nefasta. Diverso, spiega la scienziata indiana, è il caso del riuso e del riciclo locale a fini energetici di sottoprodotti agricoli e non in grado di generare biofuel: “queste – dice a Materia Rinnovabile – al contrario sono pratiche assolutamente utili e necessarie, che vanno estese e diffuse se vogliamo che la gente ritorni a vivere e lavorare la terra, e conquistare una duratura sicurezza alimentare”.

 

A suo tempo si affermò che la crisi alimentare del 2008-2009, oltre che da una serie di circostanze climatiche e meteorologiche, esplose anche a causa della sottrazione di terreno alla produzione agricola, destinato alla produzione di biocarburanti. Cos’è cambiato da allora? C’è maggiore consapevolezza?

“Innanzitutto bisogna chiarire che non tutti i biocarburanti, i carburanti liquidi che derivano da biomassa, possono essere considerati indistintamente. Bisogna distinguere tra monocolture agroindustriali mirate a produrre carburanti per far andare le automobili o in generale per sostituire combustibili di origine fossile, e la produzione locale e diffusa di carburanti da biomassa, tipica del Terzo Mondo. Quel che è successo qualche anno fa è stato una combinazione di fattori: primo, la sottrazione di terra alla produzione alimentare, destinata a grano per etanolo, soia, palma e colza per fare biodiesel. Secondo, l’ondata speculativa che dopo la crisi immobiliare e finanziaria del 2008 ha lanciato un attacco sulla terra e sulle materie prime. Infine, il fatto che l’intero fenomeno della sottrazione di terre agricole a favore dei biocarburanti non potrebbe esistere, se non fosse alimentato dai generosi sussidi esistenti negli Stati Uniti e in Europa. Questi tre fattori, purtroppo, continuano a operare. Non sono stati né ridotti né tantomeno eliminati.” 

 

In Europa si è cominciato a pensare di riutilizzare le numerose terre marginali che una volta, tanto tempo fa, erano utilizzate dai contadini, ma che ora non è conveniente coltivare e che sono più o meno abbandonate. In alcuni casi ci sono investitori interessati a coltivazioni industriali finalizzate a biocarburanti. Cosa ne pensa?

“La terra è ‘abbandonata’ per la semplice ragione che l’agricoltura è stata deliberatamente resa non più redditizia, attraverso i meccanismi dei sussidi e lo spostamento della redditività sulla produzione di mangime per animali e biocarburanti, piuttosto che sull’alimentazione umana. Se si guarda al sistema alimentare nel suo complesso, questa terra e la sua produzione potenziale non è affatto inutile o in surplus; ma viene considerata tale perché si è reso impossibile alle famiglie di contadini di coltivare la terra. Una cosa scandalosa, ancora più grave per voi italiani e per tutti gli europei mediterranei.”

 

Quali sono i motivi che rendono più grave questo fenomeno per i paesi del Mediterraneo?

“Sappiamo che la crisi economica in Europa ha colpito soprattutto l’Europa meridionale: in Grecia, Spagna, Italia, Portogallo il problema peggiore è quello della disoccupazione giovanile, ma nessuno ha mai pensato di dare terra ai giovani, e avere insieme lavoro e cibo. Eppure sarebbe una risposta logica: generare occupazione e insieme vera sicurezza alimentare – con cibo biologico, sano, locale – piuttosto che devastare deliberatamente l’agricoltura attraverso i sussidi. Mi pare una cosa atroce. Lo definirei tranquillamente ‘landgrabbing all’europea’.”

 

Non c’è nessuna differenza quindi tra un campo di jatropha in Mozambico, o un campo di arbusti mirati alla produzione di biocarburanti in Europa. 

“È la stessa cosa dal punto di vista della terra, del suolo, se così si può dire, ed è la stessa cosa dal punto di vista delle persone e della società umana. Certo c’è più povertà in Mozambico; ma c’è una nuova povertà anche in Europa, ed è una povertà decisamente crudele.”

 

Eppure per molti è una scelta giusta, anche dal punto di vista del cambiamento climatico, lasciare sotto terra i combustibili di origine fossile e spostarsi sui biocombustibili... 

“Davvero qualcuno pensa che l’attuale sistema basato sui combustibili fossili e su elevati livelli di consumo di energia possa essere conservato semplicemente spostando la pressione dai fossili alle biomasse? È impossibile, bisognerebbe sottrarre alla produzione ogni singolo appezzamento di terra. La realtà è che noi sprechiamo troppa energia, e che abbiamo creduto che il consumo di energia sia la misura del progresso della nostra società e della nostra economia. Dobbiamo realizzare un cambiamento globale di modello energetico basato sul powering down, puntare sulle fonti rinnovabili, che non mettono sotto pressione la terra. E renderci conto che la crisi alimentare è già in atto persino in Europa.”

 

Apparentemente non sembrerebbe...

“Eppure è così: l’Europa importa soia ogm dall’Argentina, dal Brasile e dagli Usa per dar da mangiare ai suoi animali. Dovreste piuttosto, come ho detto prima, usare la terra per generare lavoro e insieme sicurezza alimentare.”

 

All’inizio parlavamo di biocombustibili “buoni”: in Italia sempre più aziende agricole adoperano la biomassa agricola di scarto per generare calore o energia o biocarburante. Anche queste pratiche sono contestabili e negative?

“Assolutamente no: sono invece pratiche giuste e necessarie, valide in paesi a basso tasso di tecnologia come in paesi più avanzati. Alla fine, è una cosa che si fa da secoli, il riuso locale di scarti della produzione agricola per generare energia in un ciclo chiuso. Io contesto il ricorso a processi su larga scala, monocolturali, finalizzati a produrre biocarburanti liquidi per l’industria, fondati su sussidi pubblici indispensabili per renderli economicamente convenienti. Questo fa male alla terra, al suolo e all’economia agricola, perché mantiene in piedi un sistema che invece va abbandonato a favore di un altro basato sulle rinnovabili e sul riciclaggio.”

 

Lei conosce molto bene l’Italia e il suo paesaggio agricolo. Sappiamo che le piccole aziende agricole familiari fanno fatica a sopravvivere, nonostante i sussidi economici pubblici nazionali o europei che pure esistono. Come si può fare per invertire questa tendenza e far tornare la gente sui campi?

“Ancora una volta, io distinguerei nettamente tra i sussidi – che in realtà non vanno ai contadini, se non in piccolissima parte, ma vanno all’agrobusiness – e il modestissimo sostegno poco più che simbolico di cui beneficiano le piccole aziende agricole. Guardiamo al latte: per i piccoli il costo di produzione è superiore al ricavo che se ne può trarre sul mercato, grazie ai sussidi è esattamente l’opposto per i grandi produttori, con un meccanismo che strutturalmente indebolisce i primi e arricchisce i secondi. Bisognerebbe, invece, abolire i sussidi all’agroindustria, e aiutare i piccoli contadini. Bisognerebbe uscire dalla logica del cosiddetto libero mercato, che in realtà è libertà per le grandi corporation e assenza di libertà per i contadini e per i consumatori. Ancora, occorre un rapporto più diretto ed efficace tra chi coltiva il cibo e chi lo consuma. In Italia il movimento ‘Chilometro Zero’ è stato ostacolato dalle regole dell’Unione europea: i tentativi per esempio di adottare per la refezione scolastica cibo prodotto localmente sono stati ostacolati da Bruxelles, secondo cui tutto questo contrasta con la liberalizzazione degli scambi. In altre parole, la logica delle liberalizzazioni si contrappone direttamente all’esigenza delle persone di produrre e consumare cibo localmente. La terra non può essere soltanto una materia prima da accaparrare impunemente, per giunta una delle materie prime più sicure e redditizie. Dobbiamo affrontare con coraggio il tema dell’accesso alla terra, specie per i giovani. Anche di questo si occuperà un Manifesto che come movimento Navdanya presenteremo tra poco all’Expo di Milano.”