Le copertine che illustrano questo dossier sono prototipi vincenti di un modello di comunicazione che non ha avuto eguali nel mondo. Grande inventore di trend e vettore di gusto e stile, il Regno Unito ha qui giocato le sue carte con irriverenza e imprevedibilità.

 

Nel Regno Unito manca una strategia che supporti lo sviluppo della bioeconomia. Nonostante abbia il potenziale per essere uno dei paesi leader nel mondo, ci sono ancora diverse barriere politiche, economiche e sociali che frenano l’innovazione in questo campo. “Sono necessarie – scrivono Caitlin Burns, Adrian Higson ed Edward Hodgson in un documento pubblicato a gennaio di quest’anno intitolato ‘Five recommendations to kick-start bioeconomy innovation in the UK’ – misure concrete che consentano di colmare l’attuale divario esistente con gli Stati Uniti, il Brasile, la Francia, l’Italia, la Germania e i Paesi scandinavi”. 

Burns e Higson sono due consulenti di Nnfcc, società con sede a York fondata dal governo britannico nel 2003, che si è via via specializzata nella bioeconomia; Hodgson è un ricercatore della Aberystwyth University in Galles. 

La loro ricetta per fare fiorire la bioeconomia oltre Manica è semplice, almeno in teoria. Ecco gli ingredienti: una politica intersettoriale e di lungo termine; il supporto a un processo di clusterizzazione sul modello di quanto fatto nello Yorkshire con BioVale; il trasferimento tecnologico, dal laboratorio all’impianto pilota fino alla commercializzazione; un sistema di appalti pubblici verdi. Infine, aumentare la consapevolezza pubblica e l’accettazione dei prodotti biobased.

 

La terziarizzazione dell’economia 

Oggi il Regno Unito sembra pagare in campo bioeconomico la terziarizzazione della propria economia. Il paese rappresenta la sesta economia mondiale – la terza a livello europeo – con un pil nominale pari a 2.945 miliardi di dollari e uno pro capite di circa 45.000 dollari nel 2014. A fare da traino è soprattutto il settore dei servizi che contribuisce per 4/5 al prodotto interno lordo nazionale, seguito dall’industria (circa il 20%), mentre l’agricoltura vi concorre soltanto in maniera residuale (meno dell’1%). 

Secondo un’analisi realizzata a giugno 2015 da Capital Economics, una delle principali società indipendenti di ricerca macroeconomica al mondo, il valore aggiunto lordo della bioeconomia oltre Manica è di 153 miliardi di sterline, con oltre quattro milioni di posti di lavoro, considerando anche l’indotto. Questo fa del Regno Unito il quarto paese in Europa dietro Germania, Francia e Italia. Un altro studio realizzato dal centro studi della Banca Intesa Sanpaolo ha invece stimato il valore della produzione della bioeconomia targata UK in circa 171 miliardi di euro, con 888.000 addetti. Collocandola così al quinto posto in Europa, perché in questo caso anche la Spagna è davanti grazie soprattutto al peso dell’agroalimentare. 

 

La centralità delle biotecnologie industriali

Le potenzialità di crescita grazie all’innovazione sono, però, davvero enormi. La Chemistry Growth Partnership, un’iniziativa pubblico-privata che si inserisce nella strategia per la crescita della chimica lanciata dal governo nel 2013, stima che l’economia nazionale beneficerebbe di 8 miliardi di sterline entro il 2030 se l’industria chimica utilizzasse biomassa come materia prima. E crescerebbe di 4-12 miliardi di sterline all’anno se fossero impiegate le biotecnologie industriali. Secondo una relazione governativa, dal 2009 al 2013 il settore del biotech industriale è cresciuto dell’11% annuo in termini di fatturato e del 5% in termini di occupazione.

Non è un caso, quindi, che le principali iniziative di creazione di nuove imprese in Gran Bretagna siano riconducibili alle biotecnologie. 

Due casi su tutti hanno guadagnato crescente visibilità nell’ultimo periodo: Celtic Renewables e Biome Bioplastics. La prima è una società biotech scozzese che impiega gli scarti della produzione del whisky per sviluppare biocarburanti avanzanti e anche altri biochemicals: nel 2015 si è aggiudicata il premio EuropaBio (l’associazione europea della bioindustria) come Pmi più innovativa nel campo delle biotecnologie industriali. La seconda è una società con sede a Southampton che produce una bioplastica biodegradabile e compostabile. 

 

In attesa di una strategia nazionale

A svolgere le funzioni di organismo consultivo del governo nelle questioni relative alla bioeconomia è l’Industrial Biotechnology Leadership Forum, associazione che mette insieme industria, investitori e istituzioni. 

“Il Regno Unito – sostengono ancora Burns, Higson e Hodgson – ha il potenziale per essere un centro mondiale d’innovazione nella bioeconomia, grazie alla presenza di diversi fattori: una forte ricerca di base, molte imprese all’avanguardia tecnologica, un supporto attivo degli investitori, delle reti e delle istituzioni. C’è assoluto bisogno, però, di una strategia nazionale e di un piano d’azione conseguente.”

Non si può dire, comunque, che manchino una visione e un’iniziativa da parte del governo. Lo scorso anno il ministero per il Commercio, le Imprese e l’Energia ha pubblicato un documento – Building a high value bioeconomy. Opportunities from waste – che colloca lo sviluppo della bioeconomia all’interno del paradigma dell’economia circolare. 

La visione al 2030 è molto chiara: fare del Regno Unito uno dei più importanti attori mondiali della bioeconomia, grazie alla presenza su tutto il territorio di impianti su scala commerciale alimentati da rifiuti, alla capacità di attrarre investimenti dal resto del pianeta e alla disponibilità di tecnologie e business model da esportare in tutto il mondo. 

In campo bioenergetico, nel 2012 Londra ha presentato una strategia (UK Bioenergy Strategy) che prevede l’impiego di biomassa come imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione del paese entro il 2050. “Escludere la biomassa dal mix energetico – si legge nel piano britannico – incrementerebbe in modo significativo il costo della decarbonizzazione del nostro sistema. Un costo che è stato stimato in 44 miliardi di sterline (il riferimento è a un’analisi dell’Energy Technologies Institute, ndr)”. 

In sintesi, la strategia del governo, che verrà riesaminata nel 2017, prevede criteri di sostenibilità chiari, trasparenti ed esecutivi, il supporto all’impiego di colture energetiche e del legno come materia prima, l’attenzione a evitare impatti negativi sui prezzi degli alimenti e sulla biodiversità, il sostegno alla ricerca di nuove tecnologie. 

 

L’iniziativa scozzese

Chi, in questo scenario, non sta fermo a guardare è il governo scozzese. La Scozia è stato il primo paese nel Regno Unito, e uno dei primi in Europa, a presentare una propria strategia sull’economia circolare. Annunciata lo scorso febbraio dal ministro dell’Ambiente, Richard Lochhead, metterà sul tavolo 70 milioni di euro tra fondi nazionali ed europei per ridurre in modo rilevante i rifiuti alimentari e quelli legati alle costruzioni (che rappresentano il 50% di tutti i rifiuti in Scozia). Secondo quanto affermato dallo stesso Lochhead, la sola riduzione di un terzo dei rifiuti alimentari, fissato come obiettivo per il 2025, potrà portare al bilancio nazionale benefici per 500 milioni di sterline. 

A gennaio 2015 è stato presentato The Biorefinery Roadmap for Scotland, un documento che evidenzia, con un orizzonte di dieci anni, le azioni richieste e il supporto necessario per posizionare la Scozia come un paese capace di incoraggiare l’industria sostenibile nel mercato globale. Elemento centrale di questo documento è il Piano nazionale per le biotecnologie industriali, che mira a incrementare il volume d’affari di questo settore dai 189 milioni di sterline del 2012 a 900 milioni entro il 2025 e che – al fine di realizzare questo obiettivo – nel 2014 ha portato al lancio di IBioIC (Industrial Biotechnology Innovation Centre). A testimonianza della grande attenzione scozzese verso le biotecnologie industriali, sarà Glasgow la citta che ospiterà la prossima edizione di Efib, il Forum europeo per le biotecnologie industriali e la bioeconomia, in programma dal 18 al 20 ottobre di quest’anno. 

Secondo Alan Wolstenholme, presidente dello Scottish Industrial Biotechnology Development Group, “l’obiettivo nei prossimi dieci anni è lo sfruttamento delle risorse naturali, delle tecnologie e dell’innovazione, delle competenze di base e delle reti commerciali per spingere lo sviluppo della bioeconomia e guidare l’agenda per un paese a basso consumo di carbonio. Un settore delle bioraffinerie robusto e versatile – sottolinea Wolstenholme – darà l’impulso necessario all’industria manifatturiera scozzese e agirà come un faro per le imprese europee in cerca di collaborazione o riposizionamento.”

 

Vivergo: la bioraffineria integrata nel territorio

La pensa allo stesso modo Paul Mines, amministratore delegato di Biome Bioplastics e membro del comitato di gestione del Lignocellulosic Biorefinery Network (LBNet), una rete finanziata dal governo centrale britannico composta da operatori industriali e accademici leader nella generazione di valore economico attraverso processi chimici, materiali e combustibili innovativi che utilizzano biomassa lignocellulosica in alternativa al petrolio.

“Con la produzione di biocarburanti e prodotti chimici a base biologica in aumento – sostiene Mines – le tecnologie lignocellulosiche sono una soluzione importante per consentire l’utilizzo di colture non alimentari per questi processi e lo sviluppo di metodi efficienti e sostenibili di soddisfare chimici e materiali bisogni del mondo.”

Oggi la più importante bioraffineria nel Regno Unito è quella di Vivergo, una joint venture costituita nel 2007 da Ab Sugar, British Petroleum e DuPont, che però nel maggio 2015 ha visto l’uscita di scena di Bp, che ha venduto la propria quota all’Associated British Foods facendone così il maggiore azionista. Bp, infatti, nel giugno del 2014 ha comunicato di voler indirizzare in America i propri investimenti in biocarburanti avanzati, lamentando la mancanza di coerenza e di stabilità nella legislazione europea. Negli Stati Uniti ha sede la Butamax Advanced Biofuels, la joint venture costituita nel 2009 dal colosso petrolifero britannico in partnership con DuPont per la commercializzazione di bio-butanolo, che ha in Brasile il proprio stabilimento commerciale.

L’impianto di Vivergo, localizzato all’interno del Saltend Chemicals Park vicino ad Hull, nello Yorkshire, ha iniziato a produrre nel 2012 diventando pienamente operativo nel dicembre 2014. Si tratta di uno dei maggiori impianti per la produzione di bioetanolo in Europa, che soddisfa circa un terzo della domanda del Regno Unito per la miscelazione con la benzina. Inoltre, questo stabilimento produce fino a 400.000 tonnellate all’anno di mangimi ad alto contenuto proteico. Una quantità sufficiente ad alimentare più di 340.000 vacche da latte al giorno, ovvero il 20% del bestiame da latte nazionale.

L’aspirazione di Vivergo è diventare una bioraffineria integrata nel territorio, rifornendosi del grano di cui ha bisogno come materia prima principalmente da aziende agricole in Yorkshire e Lincolnshire. L’impianto, secondo quanto afferma la stessa impresa, consente un risparmio di gas serra di oltre il 50% rispetto alla benzina normale, l’equivalente alle emissioni attuali annue di oltre 180.000 vetture nel Regno Unito.

“Il nostro business – racconta David Richards, direttore generale di Vivergo – è un grande esempio di crescita economica sostenibile, perché assicuriamo materie prime preziose come il bioetanolo e i mangimi, che altrimenti dovremmo importare.” 

“La nostra posizione proprio sul fiume Humber – aggiunge Richards – è l’ideale: siamo nel cuore della ‘Grain Belt’ del Regno Unito, che offre tra i migliori rendimenti nel mondo. Inoltre i nostri canali per la distribuzione del bioetanolo – via nave o via strada – verso depositi dove è miscelato con la benzina non sono secondi a nessuno.” 

 

Green o bio: è una nuova economia

In attesa di una nuova strategia sulla bioeconomia, reclamata a gran voce dagli addetti ai lavori, resta valida quella sull’economia verde lanciata nel 2011, nella quale il governo sottolinea con grande enfasi il bisogno del paese di affrancarsi dall’impiego di fonti energetiche fossili: “Il Regno Unito sta diventando sempre più dipendente dall’importazione di combustibili fossili. Entro il 2020 potremmo essere importatori del 45-60% del nostro petrolio e del 70% o più del nostro gas. Al tempo stesso, è probabile che aumenterà la domanda globale, determinando vincoli all’offerta e prezzi volatili. Il Regno Unito deve diventare più resiliente a queste variazioni di prezzo, sviluppando fonti alternative d’offerta e facendo un uso più efficiente delle risorse naturali”. Se non è una strategia, è certamente un manifesto a favore della bioeconomia. 

 

C. Burns, A. Higson, E. Hodgson, “Five recommendations to kick-start bioeconomy innovation in the UK”, BIOfpr, v. 10, n. 1, gennaio/febbraio 2016; onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/bbb.1633/full

Capital Economics, The British bioeconomy, giugno 2015; www.bbsrc.ac.uk/documents/capital-economics-british-bioeconomy-report-11-june-2015/

Chemistry Growth Partnership, ukchemistrygrowth.com/Partnership.aspx

Industrial Biotechnology Leadership Forum, connect.innovateuk.org/web/industrial-biotechnology

Building a high value bioeconomy. Opportunities from wastetinyurl.com/kv28uut

UK Bioenergy Strategytinyurl.com/j5n2552

The Biorefinery Roadmap for Scotlandtinyurl.com/zdfhkmk 

Efib 2016, www.efibforum.com/news/2015/glasgow-to-host-leading-biotechnology-conference

Lignocellulosic Biorefinery Network, lb-net.net/

 

 

BioVale: Yorkshire e Humber guidano la bioeconomia britannica 

La regione dello Yorkshire e Humber è alla guida della bioeconomia britannica, grazie al progetto BioVale, il primo cluster che mette insieme imprese, università e centri di ricerca impegnati in questo metasettore, che ha beneficiato anche di finanziamenti da parte del Fondo europeo di sviluppo regionale. 

BioVale è stato creato nel luglio del 2014 con l’obiettivo di costruire un centro riconosciuto a livello internazionale per l’innovazione a base biologica, focalizzato sulle materie prime rinnovabili e sulle tecnologie agricole, in grado di attrarre investimenti e favorire una crescita economica sostenibile.

Trasferimento tecnologico, accesso a finanziamenti e a network internazionali, formazione specializzata e relazioni istituzionali sono tra le attività principali di BioVale. 

La regione dello Yorkshire e Humber è di fatto il cluster più importante della bioeconomia nel Regno Unito, rappresentando circa il 10% del suo valore totale con 9 miliardi di sterline e 105.000 addetti. Secondo stime del governo di Londra, gli investimenti in BioVale dovrebbero portare entro il 2025 alla creazione di 45.000 nuovi posti di lavoro e a un valore aggiunto per l’economia di 2 miliardi di sterline all’anno. 

Complessivamente in questa area dell’Inghilterra sono localizzate 14.000 imprese attive nella bioeconomia, oltre 450 società chimiche (il 10% del totale del Regno Unito) e più di 11.000 imprese attive in agricoltura, silvicoltura e pesca. Qui si trovano la bioraffineria di Vivergo e la centrale elettrica alimentata a biomassa del Gruppo Drax che, con 3.960 megawatt, fornisce il 7% dell’elettricità del Regno Unito. Così come si trova la più alta concentrazione di imprese alimentari di tutta la nazione. Infine, il sistema di porti sull’estuario del fiume Humber è il più trafficato del paese e il quarto in Europa per tonnellaggio.

BioVale, www.biovale.org

 

 

Il Centro scozzese per le innovazioni biotecnologiche industriali

Lanciato nel 2014, il Centro per le innovazioni biotecnologiche industriali (IBioIC) con sede a Glasgow, è stato creato per colmare il divario tra istruzione e industria.

È specializzato nel settore della biotecnologia industriale, con una profonda conoscenza e competenza tecnica per promuovere la crescita e il successo della biotecnologia industriale in Scozia, unendo industria, mondo accademico e governo. La sua visione è di creare un centro di innovazioni unico nel suo genere e leader nel mondo per quanto riguarda la biotecnologia industriale. IBioIC si impegna ad accelerare ed eliminare i rischi dello sviluppo di soluzioni sostenibili e commercialmente valide per la produzione industriale di alta qualità nei settori che utilizzano la chimica e delle scienze biologiche. Entro il 2030 si prefigge di generare 1-1,5 miliardi di sterline di valore aggiunto lordo annuale per l’economia scozzese. Ciò rappresenta un aumento degli introiti dall’attuale valore stimato di 190 milioni di sterline a circa 2-3 miliardi di sterline.

L’IBioIC ha identificato cinque temi chiave che verrebbero inizialmente adottati come aree di interesse per il centro e il successo dello sviluppo della biotecnologia industriale in Scozia: 

1. Materie prime, l’utilizzo di biomassa sostenibile per sostituire i combustibili fossili. 

2. Enzimi e biocatalizzatori/enzimi per lo sviluppo di nuovi prodotti e benefici di efficienza. 

3. Costruzione di “fabbriche di cellule”, sviluppo di strutture per l’ottimizzazione di nuovi ceppi. 

4. Industrie di lavorazione a valle, lo sviluppo di prodotti per ottenere flussi di prodotti facilmente recuperabili. 

5. Biolavorazione integrata, pieno utilizzo di materie prime e produzione di co-prodotti vari.

Scottish Industrial Biotechnology Innovation Centre, www.ibioic.com

 

 

Nel Regno Unito la prima banca per investimenti verdi 

In linea con il suo ruolo di maggiore piazza finanziaria europea, il Regno Unito può vantare la prima banca al mondo interamente dedicata all’economia verde. È la Green Investment Bank, creata e interamente controllata da Downing Street e capitalizzata con fondi pubblici. La banca svolge un ruolo centrale nella strategia di sostenibilità ambientale del paese, che richiede – secondo quanto rende noto la stessa banca – investimenti per 330 miliardi di sterline fino al 2020. 

Tra i settori oggetto dell’attività della Green Investment Bank si trova quello dei rifiuti e delle bioenergie. In questo campo, ecco alcuni dei progetti in cui ha investito la banca britannica nel 2015: 

  • 47 milioni di sterline (107 milioni è l’investimento complessivo) per un impianto energetico alimentato da rifiuti domestici e commerciali a Belfast, in Irlanda del Nord, in grado di fornire elettricità a 14.500 abitazioni; 
  • 70 milioni di sterline, insieme all’utility irlandese Esb Electricity Supply Board, in un progetto complessivo di 190 milioni per la costruzione di un impianto di energia rinnovabile nel porto di Tilbury nell’Essex (Tilbury Green Power Facility). Sarà in grado di generare, dall’inizio del 2017, 300 GWh di elettricità all’anno, rifornendo oltre 70.000 abitazioni. L’impianto è alimentato da 270.000 tonnellate annue di scarti del legno recuperati nell’area circostante, forniti dalla società Stobart Biomass;
  • 21 milioni di sterline per l’impianto di energia rinnovabile da biomassa (138 milioni l’investimento complessivo) dell’Estover Energy a Cramlington, nel Nord-est dell’Inghilterra. Si stima porterà a una riduzione delle emissioni di gas serra equivalente alla rimozione dalle strade del Regno Unito di 25.000 automobili per un periodo di vent’anni. L’impianto fornirà energia alle industrie farmaceutiche locali e sarà anche in grado di garantire elettricità e riscaldamento alla comunità locale (213 GWh di elettricità da fonti rinnovabili, sufficienti per 52.000 abitazioni all’anno).

Il 3 marzo di quest’anno il governo del Regno Unito ha comunicato la propria volontà di privatizzare la Green Investment Bank. Secondo Downing Street, “Un trasferimento al settore privato permetterà alla Gib di massimizzare gli investimenti in progetti per energia verde attraverso maggiori investimenti dal settore privato, finora limitati a causa di normative che regolamentano gli enti pubblici.”

Green Investment Bank, www.greeninvestmentbank.com

 

 

Nuovi bioprodotti dagli scarti del whisky, della birra e della pesca 

La Scozia è conosciuta in tutto il mondo per la qualità del suo whisky single malt, della birra, del pesce e dei molluschi che si pescano nelle sue acque. Tutte risorse per la nascente bioeconomia. Secondo uno studio sull’economia circolare, focalizzato proprio su questi tre settori merceologici (Sector Study on Whisky, Beer and Fish. Final Report), pubblicato a giugno 2015 su iniziativa del governo scozzese, il volume annuo degli scarti della lavorazione è elevato e può diventare materia prima per la produzione di nuovi biocarburanti o intermedi chimici a base biologica. Ben 53.682 tonnellate dalla birra, 4.371 milioni di tonnellate dal whisky e 189.538 tonnellate dal pesce e dai molluschi.

Da sempre una percentuale elevata di questi scarti è impiegata come mangime per gli animali locali e per i pesci, oppure come fertilizzante per i campi o per produrre calore ed energia. Negli ultimi anni, però, gli scozzesi hanno cominciato a utilizzare questi scarti anche per produrre biocarburanti avanzati, intermedi chimici biobased e anche integratori alimentari per la salute umana. Secondo le stime del governo, il potenziale beneficio economico per l’economia della Scozia legato all’impiego di tutti questi scarti è di 595 milioni di sterline all’anno. 

In questo scenario, il caso certamente più significativo è quello di Celtic Renewables, uno spin-off del Biofuel Research Centre della Edinburgh Napier University che ha sviluppato una tecnologia per trasformare i residui della produzione di whisky in biocarburante per vetture. Ora la tecnologia è in fase di sperimentazione al BioBase Europe Pilot Plant di Ghent, in Belgio, grazie all’ottenimento di finanziamenti complessivi pari a 1,5 milioni di euro di cui oltre un milione concesso dal governo britannico, che punta a un nuovo settore di mercato nel Regno Unito con un fatturato stimato in 125 milioni di euro l’anno.

Celtic Renewables, www.celtic-renewables.com

 

 

Immagini in ordine:

Joy Division, Unknown Pleasures, 1979. Album di debutto della new wave inglese, design di Peter Saville, Factory Records

Led Zeppelin, Led Zeppelin, 1969. Album di debutto della rock band inglese, design di George Hardie, Atlantic Records

The Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967. Ottavo album della band, design di Jann Haworth e Peter Blake (infinite le parodie), Parlophone

Pink Floyd, Dark Side of the Moon, 1973. Ottavo album della band inglese, design di Hipgnosis, Harvest Records

The Rolling Stones, Sticky Fingers, 1971. Album firmato Andy Warhol e design di Craig Braun, Rolling Stones Record (autoprodotto)

Sex Pistols, Never Mind the Bollocks, Here’s The Sex Pistols, 1977. Unico abum ufficiale della band punk rock, design di Jamie Reid, Virgin Records

The Clash, London Calling, 1979. Doppio album dal vivo della band, design autoprodotto, riprende la copertina del primo album di Elvis Presley, CBS Records 

 


  

Intervista a Maggie Smallwood, direttrice BioVale

A cura di Mario Bonaccorso

 

Abbiamo tante carte da giocare

 

La bioeconomia nel Regno Unito si fonda sul suo patrimonio di conoscenze. 

A sostenerlo – in questa intervista a Materia Rinnovabile – è Maggie Smallwood, direttrice di BioVale, il cluster che promuove la regione dello Yorkshire e Humber quale centro di innovazione di successo per la bioeconomia e aiuta le imprese locali a trarre profitto dalle opportunità economiche offerte da questo settore in rapida crescita. Con Maggie Smallwood parliamo di bioeconomia nel Regno Unito, dei suoi punti di forza e delle sue debolezze. 

 

A suo parere, quali sono i punti di forza della bioeconomia nel Regno Unito? 

“Probabilmente uno dei più grandi vantaggi del Regno Unito è il suo patrimonio di conoscenze. Questo dovrebbe permetterci di essere innovativi nel campo dei nuovi prodotti e servizi biobased.

Nello Yorkshire abbiamo già esempi di spin-off provenienti dal nostro sistema di educazione superiore. Un primo esempio è la Keracol, impresa insediata all’Università di Leeds, che ha creato un sistema di estrazione di molecole naturali dagli scarti di lavorazione della viticoltura. La Starbon, spin-off dell’Università di York, che ha brevettato una tecnologia per ricavare dall’amido un biomateriale con una vasta gamma di potenziali applicazioni; la Floreon che ha creato un additivo biobased in grado di rendere la plastica più resistente, basandosi su tecnologie sviluppate all’Università di Sheffield. In questo settore ci sono leader mondiali che vengono nel Regno Unito per accedere al nostro patrimonio di conoscenze: per esempio, per accelerare i propri progressi nel campo dei biocarburanti più moderni, il Brasile si è rivolto all’Università di York, che è un’eccellenza a livello mondiale nella conoscenza delle pareti cellulari vegetali.

Un altro vantaggio sta nel fatto che il nostro ‘sapere’ è ben collegato all’industria attraverso il network per il trasferimento della conoscenza di Innovate UK, il Network Bbsrc (Biotechnology and Biological Sciences Research Council, ndr) per la biotecnologia industriale e attraverso network regionali come BioVale. 

Grazie a centri quali il Biorenewables Development Centre a York e il National Industrial Biotechnology Facility nello Teesside, l’industria può accedere a un equipaggiamento scientifico e a sistemi innovativi per lo scale-up che sarebbero troppo costosi anche per le aziende più grandi.

Non solo. Il Regno Unito oltre ad avere la fortuna di essere sede di alcune delle più grandi multinazionali, quali Unilever e Croda, che hanno compreso le opportunità offerte dall’economia biobased, ha anche quella di ospitare molte piccole e medie imprese. Una di queste è la Biome, un’impresa che sta lavorando per produrre bioplastica dalla lignina, residuo della carta, così come altre industrie all’avanguardia che producono biocarburanti.”

 

E i punti deboli?

“Un primo punto debole è rappresentato dalla percezione della bioeconomia: spesso le persone non capiscono cosa significhi. 

In secondo luogo non ci si rende conto delle sue dimensioni: uno studio di Capital Economics ha stimato che il valore aggiunto lordo derivante dalla bioeconomia britannica nel 2012 è stato di 153 miliardi di sterline. Si tratta di un valore diffuso nel paese, a differenza di alcuni settori industriali che sono fortemente concentrati geograficamente. 

L’uso di biorisorse nella produzione di intermedi chimici, carburanti e materiali è un settore emergente, ma mancano ancora collegamenti fra le industrie e queste nuove catene di fornitura.

Il Regno Unito inoltre ha dimensioni limitate, e non disponiamo del tipo di biomassa di cui godono altri paesi, come le ampie foreste della Scandinavia. Ciò significa che dobbiamo concentrarci sull’incremento di valore dei prodotti secondari e dei rifiuti.” 

 

Nel Regno Unito alcuni lamentano la mancanza di una strategia per la bioeconomia. Si tratta di un argomento incluso nell’agenda del governo? Secondo lei, quali misure dovrebbe contenere un piano che possa dare sostegno pratico alla bioeconomia?

“Il Bbsrc e i vari dipartimenti del governo inglese hanno commissionato una specifica analisi per entrare nel merito della questione. BioVale sta lavorando con la Biobased and Biodegradable Industries Association (Bbia) e con altre piccole e medie imprese innovative che fanno parte del nostro network per analizzare il tipo di sostegno legislativo di cui ha bisogno la bioeconomia per crescere. 

Probabilmente avere politiche stabili è il fattore più importante per sostenere lo sviluppo di una bioeconomia forte. La produzione di sostanze chimiche e materiali dalla biomassa è spesso un vantaggio per l’ambiente; inoltre rappresenta un’aggiunta di valore rispetto all’utilizzo della biomassa per produrre bioenergia o biocarburanti. Se si estendesse anche alle sostanze chimiche biobased il sostegno delle policy attualmente rivolto solo ai biocarburanti e bioenergia, questo eliminerebbe il loro svantaggio rispetto a queste ultime.” 

 

Secondo lei in che modo la forte crescita del settore terziario ha effetti sulla bioeconomia nel Regno Unito? 

“La bioeconomia ha bisogno di un settore di servizi (legali, di project management, di marketing, finanziari) tanto quanto l’economia petrolchimica. Molte delle competenze saranno trasferibili, quindi questa forza del settore terziario potrà passare alla bioeconomia, nel Regno Unito come nel resto del mondo.”

 

BioVale è il primo cluster britannico dedicato alla bioeconomia. Cosa fate per supportare il suo sviluppo? 

“Basandosi sulla propria eccellenza nella bioeconomia, BioVale punta a fare della regione dello Yorkshire e Humber un centro internazionalmente riconosciuto per l’innovazione biobased, focalizzandosi sulle materie prime rinnovabili e sulle tecnologie agricole. Lavorando con partner quali Ukti e il Foreign Office’s Science and Innovation Network, oltre ai nostri partner del gruppo europeo nel consorzio 3Bi, promuoviamo i prodotti della bioeconomia locale presso i mercati esteri, gli investitori, i policy maker e i finanziatori.”

 

Ma il vostro modello può essere applicato altrove?

“La regione dello Yorkshire e Humber ha una notevole combinazione di ricerca, industria e agricoltura biobased e ciò le dà un preciso vantaggio. Ma anche per le altre regioni vi sono infinite opportunità di sviluppare la bioeconomia attraverso un approccio simile. Il nostro gruppo ha scelto di focalizzarsi su quattro aree principali, in cui i nostri stakeholder sono competitivi a livello mondiale: l’aggiunta di valore ai biorifiuti, i carburanti e le sostanze chimiche di nuova generazione, l’estrazione di sostanze chimiche pregiate dalle piante e dai microbi e le tecnologie agricole. Altre regioni avranno priorità diverse, che rispecchieranno le attività industriali e l’agricoltura locale. Ma i principi di base che rafforzano le connessioni tra i diversi elementi delle nuove catene di fornitura e innovazione biobased possono essere applicati ovunque.”