Si fa presto a parlare di economia circolare. Basta dire che il rifiuto viene riciclato ed è subito economia circolare. Si tratta di un’enunciazione che, a voler essere buoni, si può definire superficiale. La semplicità apparente della produzione delle merci, unita alla massiccia disponibilità di materie prime che ha caratterizzato tutta l’industria fino a oggi, porta a pensare al riciclo in termini altrettanto semplici. Ed è un approccio sbagliato. 

Invece le filiere produttive, nel solo aspetto della manifattura, sono molto complesse, stratificate e razionali e la loro complessità aumenta quando si tenta di chiudere il ciclo usando come risorse le materie prime seconde. Il ciclo, infatti, perde la propria razionalità quando la complessità contenuta nel prodotto incontra quella, sociologica, dell’utilizzo e del divenire rifiuto. 

Ed è il “caos”. Materiali che si aggregano in base a schemi casuali, energia utilizzata in maniera irrazionale e stili di vita “umorali” sono gli ingredienti che compongono questo caos, per decenni nascosto sottoterra. Ossia nelle discariche. Oggi l’insostenibilità di questa logica inizia a essere percepita nei fatti e si sta tentando la missione “impossibile” della razionalizzazione dei rifiuti attraverso raccolta differenziata e riciclo. 

Una prima esperienza arriva non da un soggetto manifatturiero ma dal Gruppo Veritas, la maggiore multiutility del Veneto che si occupa della gestione dei rifiuti e delle risorse idriche: ha certificato, per la prima volta in Europa e forse nel mondo, il ciclo dei rifiuti, dalla raccolta differenziata alla fornitura di materia prima seconda alle imprese, monitorandone tutti i passaggi nel dettaglio tenendo conto degli aspetti energetici e ambientali. 

“La certificazione da parte di un ente terzo (Bureau Veritas: un ente certificatore che solo casualmente condivide parte del nome con la multiutility veneta, ndr) – ci dice Andrea Razzini direttore generale del Gruppo Veritas – serve per due motivi. Il primo perché risponde a uno dei dubbi che hanno i cittadini in tema di rifiuti, cioè che il loro sforzo per la differenziata sia vano nella convinzione, profondamente errata, che poi le multiutility mescolino di nuovo tutto. Il secondo in quanto attraverso il meccanismo di certificazione e monitoraggio riusciamo a perfezionare la qualità della materia prima seconda che produciamo”.

 

 

Certificazione. Bisogna capire, però, che non stiamo parlando di timbri e burocrazia, o di un pezzo di carta acquisito a chissà quale titolo, ma di documenti che possiedono una mole di dati raccolti con metodologie scientifiche che non possono essere “interpretati”, perché quando parliamo di processi industriali e di forniture di materie prime alle imprese, le bugie hanno le gambe corte. Molto corte. Ma questo non è il caso di Veritas che ha certificato la maggior parte delle proprie filiere/piattaforme – vetro, acciaio, alluminio, carta, plastica, Css (combustibile solido secondario) – e sta studiando anche la certificazione dell’umido. Ed è qui che ci si scontra con la complessità e il caos di ciò che chiamiamo rifiuto. 

Ne è un esempio il caso della plastica. “La plastica al singolare – continua netto Razzini – è solo una parola. La parola corretta è plastiche e sono migliaia, cosa che complica la questione. Le filiere per la trasformazione dei rifiuti in materia prima seconda non sono per niente semplici o di facile accesso. Quindi i soggetti abituati a fare la raccolta dei rifiuti in maniera indifferenziata hanno dovuto imparare non solo a effettuare la raccolta in maniera differenziata, ma farsi carico della qualità delle materie prime seconde in uscita perché le aziende che le devono lavorare vogliono del materiale di ottima qualità in base a esigenze precise”. 

Le materie prime seconde devono, infatti, reggere il confronto sia qualitativo, sia economico con le materie prime tout court, se vogliono avere la possibilità d’inserirsi nel circuito della manifattura oggi. E la certificazione è, con ogni probabilità, la strada principale per fare ciò. 

 

Idea trasparente

In Veritas l’idea della certificazione della filiera/piattaforma è nata sul vetro per capire, in primo luogo, cosa succede lungo una specifica filiera di riciclo in tema di raccolta e di selezione, fino ad arrivare alla fonderia. La scelta di questa filiera per la sperimentazione è stata fatta non solo perché è la più completa che Veritas ha a disposizione – consentendone così un’analisi profonda – ma anche perché l’azienda ha identificato nel vetro una materia prima seconda che è un ottimo vettore di comunicazione verso i cittadini. 

“Abbiamo scelto, come prima sperimentazione della tracciabilità di filiera/piattaforma (azione essenziale e propedeutica alla certificazione, ndr) il vetro, prendendo la differenziata da alcune municipalità della terraferma (di Venezia, ndr) e analizzando chilo per chilo il vetro raccolto nelle campane” ci racconta Giuliana Da Villa, responsabile qualità e ambiente di Veritas. “È stata necessaria, inoltre, la collaborazione fattiva dell’azienda vetraria, uno dei punti di snodo della filiera, alla quale abbiamo chiesto di fondere il nostro vetro in unico forno; per una settimana quel forno ha fuso solo il nostro vetro, trasformandolo in bottiglie.” 

Potrebbe sembrare una cosa piccola e scontata e invece non lo è. Ogni soggetto industriale appartenente a una qualsiasi filiera produttiva, possiede delle proprie dinamiche industriali e la disponibilità a “bloccare” un pezzo della produzione per fare una verifica sull’intera filiera, che quindi riguarda anche soggetti esterni, non è affatto scontata, tanto più se – come in questo caso – parliamo di una multinazionale. 

 

 

Del resto senza questo passaggio i dati della filiera, specialmente sotto il profilo energetico, avrebbero avuto delle lacune evidenti, ragione per la quale la collaborazione delle aziende finali è fondamentale. Si tratta di dati la cui conoscenza è essenziale per la filiera del riciclo, ma la cui riservatezza da parte delle imprese è comprensibile. La loro diffusione su una maggiore efficienza di processo di un’azienda, per esempio, può azzerare un vantaggio competitivo della stessa, ma allo stesso tempo si potrebbe aver bisogno di questi dati per efficientare la filiera del riciclo. Nella ricerca di questo equilibrio, la certificazione realizzata da Veritas è estremamente utile. Se i dati sono disponibili, non sono però resi pubblici nel dettaglio, perché è il processo del riciclo nel suo complesso a essere certificato. 

Alla fine, ottenuti i dati, Veritas si è posta il problema della comunicazione della filiera ai cittadini, anche per smentire il luogo comune sulla trasformazione della differenziata in indifferenziata a opera delle multiutility. E ha lanciato, nel senso letterale del temine, un messaggio all’interno delle bottiglie distribuite ai cittadini, sul fatto che proprio quelle bottiglie erano solo qualche settimana prima un rifiuto vetroso, buttato nelle campane della raccolta differenziata. Un segnale chiaro: quello che era un rifiuto ora è un oggetto utile. 

L’esperienza fatta con il vetro ha aperto la strada alla certificazione delle altre cinque filiere. Tra queste c’è quella del Css (combustibile solido secondario) che è con ogni probabilità una delle materie prime seconde più controverse, perché accomunato dall’opinione pubblica all’incenerimento, mentre si tratta di un vero e proprio combustibile, che se rispetta certi parametri perde la caratteristica del rifiuto. L’analisi svolta per la certificazione del Css ha rivelato questioni preziose sulle filiere/piattaforme, come le tipologie e le quantità dell’errato conferimento, e anche sull’azienda stessa.

Sono emersi per esempio alcuni problemi sul monitoraggio dei consumi energetici dei mezzi usati nella fase di raccolta, dovuti al fatto che i dati non vengono rilevati nella stessa maniera nelle diverse zone dove operano – un caso classico di “stratificazione” nel tempo delle pratiche aziendali. Sul fronte della qualità, invece, il processo ha promosso a pieni voti la progettualità dell’impianto di Ecoprogetto Venezia – la società del gruppo che si occupa di Css – che è in grado di garantire, vista la tecnologia e le modalità operative applicate, una produzione di Css corrispondente ai limiti imposti dal Dm 22/2013 relativi all’end of waste, anche in presenza di materiali non idonei al processo di riciclo. Insomma se la complessità dei rifiuti urbani e della loro gestione è nei fatti, per i rifiuti industriali, spesso mono materiali, è abbastanza semplice trovare la connessione tra prodotti e materie prime seconde, anche per produzioni di pregio. Per esempio i pannelli fotovoltaici al tellururo di cadmio, che hanno raggiunto l’efficienza record del 22,1%, sono realizzati con sostanze che provengono dagli scarti industriali della raffinazione dello zinco e del rame.

Per avere un quadro reale, che comprenda anche le questioni ambientali a 360 gradi, durante il processo di certificazione sono stati tracciati tutti i consumi in termini di energia, acqua e altre risorse, andando oltre agli aspetti esclusivamente aziendali, come la quantità di materiale prodotto. Per ogni filiera/piattaforma si è misurato con precisione il bilancio del ciclo di vita, disegnando così l’impronta ecologica del ciclo del riciclo, partendo dal conferimento dei rifiuti da parte del cittadino, fino al prodotto ri/finito, come nel caso del vetro. Gli indicatori ottenuti saranno preziosi in futuro poiché potranno essere utilizzati come base per gli sviluppi dell’economia circolare. 

“Durante l’attività di certificazione – spiega Da Villa – ci siamo resi conto che i dati ottenuti erano molto interessanti al di là delle questioni comunicative e ci siamo chiesti se esistessero delle normative per fare ciò. Ci siamo così accorti che non esistono standard internazionali per la tracciabilità del riciclo e abbiamo chiamato in causa un ente di certificazione terzo, identificato attraverso una gara, Bureau Veritas, per fissare i dati e le metodologie che oggi possediamo”. 

 

Il tramonto del Nimby

Le attività sui rifiuti da sempre sono a rischio Nimby (Not in my back yard, “Non nel mio cortile”, ndr), anche le più virtuose. Sebbene il Gruppo Veritas operi in zone fortemente antropizzate, resistenze da parte della popolazione verso le attività delle piattaforme per il riciclo non ce ne sono state: questo perché gli impianti sono stati posti in aree periferiche e spesso in siti già interessati in precedenza da attività industriali. E questa è, con ogni probabilità, la ricetta giusta per realizzare impianti problematici, anche se con vocazione virtuosa come le piattaforme per il riciclo. Non bisogna dimenticare, infatti, che spesso il cittadini guardano alle problematiche di immediata prossimità, non percependo i vantaggi di impianti come questi che appartengono a scale più grandi. 

In questo caso, però, la scelta di Veritas si è rivelata vincente, perché oltre a preferire una zona periferica, per una serie di impianti si è scelto Porto Marghera. “Questa opzione – spiega Giuliana Da Villa – è stata vista dai cittadini come un recupero e una bonifica della zona, viste le attività che vi venivano effettuate in precedenza. L’impianto Eco-Ricicli, dove si seleziona e avvia al riciclo vetro, plastica e lattine, sorge su una zona bonificata. Così si recuperano zone che non avrebbero potuto esserlo in altra maniera”. E a favorire l’accettazione degli impianti c’è il fatto che il riciclo è un’attività che possiede un’alta intensità di lavoro chiudendo così un ciclo. Si fanno nuovi impianti su zone bonificate e dove sono sparite le attività precedenti e se ne creano di nuove a impatto molto minore e recuperando posti di lavoro.

 

Rapporto con le imprese

Il limite emerso da questa esperienza, vetro a parte, sta nel rapporto con le aziende manifatturiere. Ora tale rapporto si ferma al livello delle imprese intermedie che – grazie alle conoscenze specifiche possedute sui processi aziendali – riescono a fornire alle aziende manifatturiere le materie prime seconde giuste per le specifiche lavorazioni. Si tratta di un gap nella catena della conoscenza che complica l’ottimizzazione del processo di riciclo, poiché potrebbero mancare informazioni importanti nei procedimenti a monte per ottenere materiali utili a valle. Proprio per superare questo limite Veritas sta avviando una sperimentazione: con la tracciabilità dettagliata della plastica e dell’alluminio provenienti dai rifiuti, l’azienda punta a fornire direttamente alle imprese materie prime seconde per produrre giochi per bambini da utilizzare nei parchi pubblici. È una sperimentazione che potrebbe essere finanziata con un bando europeo e che ha come partner il Comune di Venezia, il quale sceglierà con gara un produttore e gli conferirà l’incarico di realizzare queste attrezzature esclusivamente con materia prima seconda proveniente dal riciclo dei rifiuti solidi urbani effettuato attraverso la filiera di Veritas. Aver scelto questo utilizzo non è una sfida da poco, visto che i giochi all’aperto per bambini sono soggetti agli agenti atmosferici, al maltrattamento sistematico dei piccoli utenti oltre a dover essere omologati secondo una normativa molto stringente. Al progetto sono interessati molti produttori, per testare sia queste metodologie, sia i “nuovi” materiali. Le coperture dei giochi saranno fatte con un granulato ottenuto dalle cassette per la frutta, mentre le strutture portanti in alluminio riciclato. Presto, quindi, le mamme e i papà di Venezia potranno spiegare ai propri bambini che il loro gioco preferito al parco è stato realizzato con la cassetta della frutta della merenda e con la lattina della bibita. 

Qualche anno fa si diceva che “il medium è il messaggio” (McLuhan, 1967); in futuro si potrà dire che “l’oggetto è il messaggio”. Per definire, e comunicare, al meglio l’economia circolare.

 

 

Info

www.gruppoveritas.it