Nel caso del Protocollo di Kyoto ci sono voluti più di 7 anni perché la diplomazia europea, all’epoca piuttosto isolata, riuscisse a chiudere la partita e a far entrare in vigore l’accordo.

Adesso le prospettive sono ben diverse e si prevede che i tempi saranno molto più stretti. Una prima verifica sugli obiettivi assunti volontariamente dagli Stati si avrà entro il 2018, nel 2020 scatterà la partenza operativa con revisione quinquennale per mettere meglio a fuoco le strategie. Secondo Todd Stern, il capo dei negoziatori climatici di Obama, si tratta di una svolta storica perché “stabilisce il primo regime universale e non transitorio sul clima”.

Si è parlato molto dei punti deboli e dei punti forti di questo accordo. Nella prima categoria figurano la mancanza di sanzioni contro i paesi che non dovessero rispettare gli impegni assunti (erano presenti nel Protocollo di Kyoto); i tempi troppo dilatati (gli scienziati chiedono azioni rapide e radicali); i target insufficienti (anche se tutti rispettassero gli obiettivi dichiarati la temperatura globale subirebbe un aumento globale compreso tra 2,7 e 3 gradi rispetto all’era preindustriale).

Nella seconda categoria, quella degli aspetti positivi, troviamo invece il fatto che per la prima volta tutti i governi hanno deciso di indicare obiettivi per la difesa del clima (a Kyoto si impegnò solo l’Ocse); la clausola che vieta a ogni paese di rinnegare per almeno 4 anni l’accordo firmato (in questo modo si evita che un cambio di guardia politico possa portare a un rapido dietrofront); la radicalità degli obiettivi assunti (fare ogni sforzo perché l’aumento della temperatura non superi 1,5 gradi a fine secolo).

L’interpretazione positiva dell’accordo di Parigi è rafforzata da segnali forti che arrivano sul piano economico. È stato varato un fondo da 100 miliardi di dollari per lo sviluppo delle tecnologie a basso impatto ambientale nei paesi a scarsa industrializzazione. E nel 2015 gli investimenti sulle rinnovabili hanno stabilito un nuovo primato arrivando a 286 miliardi di dollari, contro i 130 miliardi a cui si sono fermati i fondi per i combustibili fossili.

Dunque – anche grazie alle evidenze sempre più drammatiche del cambiamento climatico in corso – il dibattito sta ormai dando per scontati gli aspetti tecnici della questione e si sta concentrando sulle difficoltà politiche che potrebbero sbarrare la strada all’accordo. Per esempio il rischio legato all’elezione di un repubblicano alla Casa Bianca nel 2017.

Ma c’è un aspetto di merito che è stato sottovalutato rischiando di produrre un’asimmetria nella cura climatica: il recupero delle decine di miliardi di tonnellate di materia sprecate ogni anno. Il concetto di rinnovabilità non può essere declinato a senso unico: c’è molta – giusta – attenzione sull’energia. Poca – troppo poca – sulla materia. Materia Rinnovabile è nata proprio per contribuire a colmare questa lacuna, perché per arrivare al riequilibrio climatico bisogna passare per un riequilibrio dell’attenzione.

Il pacchetto sull’economia circolare – presentato dalla Commissione europea in simbolica coincidenza con la conferenza Onu sul clima – è l’occasione per ridurre il ritardo perché l’economia lineare, anche se sostenuta da un minor uso dei combustibili fossili, non è compatibile con il salto culturale e produttivo che la sfida di Parigi indica. Bisogna passare dall’energia usa e getta e dai materiali pensati per la discarica a un’economia che rimette continuamente in circolo l’energia, la materia e l’intelligenza creando reti e opportunità per una crescita collettiva. Lo sviluppo in linea orizzontale, che passa per il coinvolgimento dei territori e per una distribuzione più equa dei benefici, costituisce infatti un’altra delle condizioni per l’abbandono del modello fortemente gerarchico che caratterizza l’era dei fossili e dello spreco. È una battaglia globale ma si gioca paese per paese e arrivare prima vuol dire guadagnare competitività.