Senza alcun intento di alimentare leggende sull’impresa privata Pavan Sukhdev, intervistato nel numero precedente di questa rivista, sostiene che il principale motore del cambiamento nel corrente modello di sviluppo debbano essere le grandi compagnie multinazionali, soprattutto in presenza di una crescente incapacità dei governi nell’esprimere la leadership necessaria. Lo possono essere a determinate condizioni: allineare i propri obiettivi con quelli della società, limitare l’uso della leva finanziaria, comunicare in modo corretto, costituire un elemento vitale nelle comunità e nei luoghi in cui operano. Farsi custodi e promotrici di capitale finanziario, naturale, sociale e umano. Lo faranno? Il punto, per Sukhdev, è che le corporation possono farlo, più facilmente, velocemente ed efficacemente dei governi. Una visione che sembra essere l’esatto opposto rispetto alle tesi e all’intento stesso del libro di Mariana Mazzucato, che è quello di smontare la falsa immagine dello stato come fattore inerziale, che rallenterebbe la “naturale” dinamicità dell’impresa, altrettanto “naturalmente” tesa verso l’innovazione. Un’immagine frutto di una percezione falsata di come le fondamentali innovazioni che hanno caratterizzato i decenni recenti abbiano avuto origine.

 

Quindi la prima domanda è: chi è e chi sarà il protagonista della trasformazione sostenibile, della trasformazione green? Lo stato o le imprese? 

“Il punto non è stato o impresa. Il problema è diverso secondo me: si tratta di accettare la situazione attuale o di usare sia la storia sia la teoria per costruire oggi uno stato diverso, per puntare a un cambiamento. Abbiamo di fronte due problemi fondamentali: il primo è che le grosse imprese sono superfinanziarizzate e maggiormente impegnate in attività di free-riding piuttosto che in quelle di ricerca e sviluppo. Ricomprano le proprie quote azionarie per far salire il valore delle stock options e per far crescere i guadagni di chi detiene le azioni, piuttosto che investire in ricerca e sviluppo. Tantissime società lo fanno, sia nel settore dell’Information Technologies sia in altri settori, e le peggiori sono quelle del settore energetico.

Il secondo problema è che abbiamo stato e governi privi del coraggio necessario a rifare ciò che alcuni governi hanno fatto in passato. Quindi, dobbiamo da un lato riformare, ridare coraggio, allo stato e dall’altro lato definanziarizzare le grandi imprese.

Il punto perciò non è stato o imprese, ma che tipo di imprese e che tipo di stato. 

Io parlo sempre di uno stato mission oriented, non parlo di stato come ‘il ministero dell’economia’, la grande burocrazia, un’economia gestita top down. Ma se guardiamo tanto alla Silicon Valley, quanto a nazioni come la Germania, la Danimarca e altre (forse anche la Cina), quello che vediamo è che nei luoghi dove c’è stata smart innovation c’è stato dietro quello che chiamo stato decentralizzato, un decentralized network state ed è interessante vedere che tipo di organizzazioni e strutture vi operano e che ruolo hanno giocato. Ma l’altro aspetto interessante è il ruolo dello stato che ne emerge: quello di un soggetto che non si limita a correggere i fallimenti del mercato, per esempio quando c’è di mezzo un bene pubblico come può essere la ricerca di base, dove c’è troppo poco investimento privato e lo stato deve correggere. Questa rimane una funzione molto importante, basti pensare che è lo stato ad aver finanziato tutta la ricerca di base che c’è dietro allo sviluppo di settori come l’IT, le nanotecnologie, le biotecnologie e oggi il green. Sullo sviluppo delle energie rinnovabili sono stati impegnati quasi solo fondi statali.

Ma oltre a tutto ciò, lo stato ha anche giocato un ruolo di creazione del mercato. Così è avvenuto negli Usa, dove per quanto riguarda lo sviluppo delle energie rinnovabili, lo stato ha creato, ha formato il mercato, per esempio intervenendo su tutta la catena dell’innovazione, non solo nell’ambito dell’upstream basic research, ma anche sulla ricerca applicata. E ci ha anche messo i soldi: il capital financing delle imprese nel settore delle rinnovabili non è venuto all’inizio dai venture capitalist, ma da “capitali pazienti” provenienti da diversi tipi di fondi pubblici. In Israele, per esempio, c’è un Public Venture Capital Fund; in Usa ci sono tanti tipi di fondi, come lo Small Business Innovation Capital Fund, tanto per citarne uno. C’è quindi stato un impegno pubblico molto attivo su tutta la catena della ricerca, non solo sulla ricerca di base. E in più si è trattato sempre di un impegno mission oriented. Cosa intendo dire? Che l’obiettivo, come nel caso della ricerca spaziale, era chiaro e definito a priori: arrivare sulla Luna. Si può discutere dell’utilità o meno di averlo fatto e addirittura se sia stato fatto veramente o meno. Ma è il modello che conta, mentre spesso grandi sfide come quelle su cui si impegna l’Unione europea (invecchiamento della popolazione, cambiamento climatico) rischiano di essere molto astratte. Sfide condivisibili, ma quando ci arrivi? Bisogna definire una direzione, anche broadly defined, ma concreta, ponendo obiettivi chiari, in modo da sapere quando gli obiettivi sono raggiunti.” 

 

Quindi c’è una fondamentale diversità tra investimento privato e investimento pubblico in rapporto all’innovazione. Lo stato è (o può essere) protagonista quando si tratta di innescare processi di cambiamento di valore strategico, come nel caso della green economy, mentre il privato agisce quando qualcun altro ha creato le condizioni favorevoli per farlo e se non ha altri modi, più convenienti, per migliorare la propria performance. 

Tornando allo sviluppo green, quali sono le linee strategiche che uno stato dovrebbe adottare? Quali gli elementi chiave per implementare la mission?

“Per sviluppare una green economy oggi uno stato non può limitarsi a intervenire sui fallimenti del mercato, per esempio attraverso l’imposizione di una carbon tax, ma deve fare delle scelte strategiche, mission oriented, nella direzione green. Perché nel passato è successo così: sviluppare il settore IT è stata una scelta, lavorare sulle nanotecnologie è stata una scelta. Oggi la scelta strategica da fare è green, che non vuol dire solo energia rinnovabile, ma un ri-orientamento di tutta l’economia. Prendiamo proprio l’esempio del settore IT: la cosiddetta IT revolution è solo a metà strada, non è ancora realmente diffusa. Come ha detto Robert Solow: ‘i computer sono dappertutto ma non li vediamo nelle statistiche relative alla produttività’. Finora il settore IT non ha avuto una direzione, non è stato orientato secondo un strategia finalizzata a un obiettivo. Green potrebbe essere la nuova direzione per arrivare a quel full deployment, a quel pieno dispiegamento che, per esempio la electricity revolution ha avuto solo negli ultimi cinquant’anni. 

Il problema è che non abbiamo più il coraggio nemmeno di parlare dello stato in questi termini, cioè come soggetto che orienta lo sviluppo e l’innovazione. Nel migliore dei casi ne parliamo solo come soggetto che agisce sulla riduzione del rischio per il settore privato: incentiva, crea delle private-public partnership, stabilisce regole. 

Non è un soggetto che prende decisioni coraggiose, di cui tante falliranno. E anche questo va sottolineato, perché si deve accettare anche per lo stato, in quanto fondamentale investitore in innovazione, la possibilità del fallimento. Prendiamo ciò che ha fatto Obama nel 2009: una gran parte delle misure di stimolo all’economia era green directed, con prestiti garantiti ad attività green, come i 465 milioni di dollari prestati a Tesla e i 500 milioni assegnati a Solyndra. Poi cosa è successo: Tesla è andata bene, mentre Solyndra è fallita. Ai contribuenti, che hanno finanziato queste iniziative cosa è andato? Nulla, se non i costi.

Allora, non ammettendo che lo stato innovatore è uno stato investitore, uno stato che si assume un macro-rischio, (e quindi in questo deve anche poter contare dei fallimenti) si continua solo a socializzare il rischio e a privatizzare il guadagno. E questo crea un grosso problema, perché così aumenta la disuguaglianza (perché, come accennato sopra non si ridistribuiscono guadagni allo stato, cioè alla collettività) e si sottraggono fondi alla prossima sfida da affrontare. Qualsiasi venture capitalist sceglie di investire su un portafoglio a maggior rischio sapendo che bilancerà investendo su altre cose più sicure. Facendo finta che lo stato debba solo ridurre i rischi per l’impresa privata e limitarsi a un ruolo di regolatore e amministratore, e facendolo anche nei paesi dove lo stato svolge efficacemente questo ruolo di investitore/innovatore (ciò che comunque non succede in Italia) non c’è questo revolving fund. Nulla torna alla stato, ossia alla collettività.

Cosa produce un simile atteggiamento nell’opinione pubblica? Prendiamo l’esempio dell’assistenza sanitaria negli Usa: la spesa annua dei contribuenti per i medicinali è di 32 miliardi di dollari, ma quando Obama ha deciso di portare l’assistenza sanitaria a 70 milioni di persone che non vi avevano accesso, con il cosiddetto Obamacare, è stato accusato di ‘mettere le mani nel nostro sistema sanitario’. Lui ha difeso il provvedimento con le solite argomentazioni della sinistra, richiamando valori etici e idee di giustizia, quando avrebbe legittimamente potuto dire: ‘Stiamo mettendo le mani nel vostro sistema sanitario? Eh no cari, noi abbiamo creato il vostro sistema sanitario!’. Le persone non vedono nemmeno questo ruolo dello stato come co-creatore, ma le medicine che comprano sono state create dallo stato (attraverso quanto sopra, ossia per esempio il finanziamento di una ricerca mission oriented). C’è quindi un problema di ignoranza e lo stesso Obama (ma vale per tutti i politici nazionali o locali) non ha nemmeno più il vocabolario, non ha le parole per parlare dello stato in questi termini. E i politici non le hanno nemmeno quando sono perfettamente consapevoli del ruolo svolto dallo stato.

Ovviamente, c’è anche il caso peggiore: il caso in cui alla politica il vocabolario manca perché manca la comprensione di quello che è stato fatto. Renzi visita la Silicon Valley e se ne torna a casa con il Jobs Act, ma non ha minimamente compreso il ruolo svolto dallo stato nella stessa creazione di Silicon Valley. Il governo o lo stato, deve creare un’enorme onda sopra la quale i gli imprenditori o i venture capitalist possano surfare. Oggi non c’è più lo stato che crea questa bella onda. Ma non solo: quando crei l’onda non puoi solo lasciarla andare, ma devi creare dei patti, simbiotici e non parassitari, con l’impresa. Prendiamo ancora l’esempio di Obama: quando la Fiat è arrivata proponendosi come acquirente di Chrysler, Obama in sostanza ha detto ‘Caro Marchionne, vuoi comprare Chrysler? Bene, ma dal momento che sono stati i contribuenti a salvare Chrysler, allora ti dico io cosa devi fare: devi investire in motori ibridi’. Quindi la Fiat in America investe in motori ibridi e in Italia che fa? Nulla del genere, ovviamente. Ma qualcuno glielo ha chiesto? Ovviamente no. La politica di Renzi è esattamente quella che vede lo stato come puro facilitatore per il settore privato: vuoi una tassa in meno? No problem. Quella legge ti dà fastidio? Te la tolgo. E il tutto senza alcuna evidenza che ciò serva a produrre un risultato utile alla collettività. Prendiamo il Jobs Act: sarebbe risultato significativo per la collettività se il sistema di imprese italiano avesse una media di 13-14 lavoratori, che assumendo e passando a 15 e oltre avrebbero beneficiato di questa legge. Ma la realtà è che la media degli addetti nelle imprese italiane è 4! Quindi si è trattato solo di un regalo, senza condizioni, alle grandi imprese. L’impedimento alla crescita non era nei diritti dei lavoratori, ma nell’assenza di un ecosistema serio, fatto tanto di investimenti pubblici quanto privati. In Italia la relazione tra pubblico e privato è parassitaria. Sono inerti entrambi, quindi non c’entrano pubblico o privato o la sussidiarietà del terzo settore. Anche il terzo settore lo vedo inerte, un tappabuchi, non è un soggetto che spinge all’apertura di nuovi mercati. Così come fa lo stato quando, in merito alla salute, sostiene la ricerca su nuovi farmaci anziché promuovere diversi modelli di lifestyle!”

 

C’è però una contraddizione che emerge visibilmente negli ultimi decenni: la politica (pubblica) ha effettuato una forte delega nei confronti dell’economia. E l’economia ha a sua volta effettuato una delega nei confronti dell’economia monetaria. Le scelte politiche si prendono tenendo sempre più conto di aspetti legati a fattori strettamente monetizzabili.

Sukhdev ci ricorda che una parte rilevante del capitale naturale, e quindi del bene comune, è legato a fattori non immediatamente monetizzabili. Non c’è rischio allora che questa “conversione culturale” delle politiche pubbliche le renda meno capaci di vedere le priorità della sostenibilità? C’è una diversità possibile, tra stato centralizzato e quello che definisci come stato decentralizzato? Come si fa a non perdere la visibilità del bene comune e orientare quindi il progetto, la ricerca, l’innovazione tecnologica nell’interesse della collettività?

“Innanzitutto quando parlo di stato decentrato non mi riferisco necessariamente a diversi livelli geografici di governo (nazionale o regionale, per esempio) ma a un sistema come quello Usa, dove tutte le competenze su un tema, poniamo l’energia, non sono assorbite da un ministero specifico, ma sono distribuite su una quantità di diversi tipi di agenzie e organizzazioni. Poi si può anche guardare se sono federali, statali o locali, ma non è questo il punto. Prendiamo Arpa-e: ora questa agenzia si sta dedicando di trasferire al campo delle energie rinnovabili quel ‘out-of-the-box-thinking’ e assolvere quella funzione che Darpa ha svolto per tutto ciò che poi è diventato internet. È un’agenzia federale, ma è decentralizzata dal punto di vista organizzativo; se entri lì dentro ti sembra di entrare nell’HQ di Google: c’è la stessa atmosfera creativa e non solo, nell’agenzia sono riusciti a portare dentro i cervelli migliori. Lo stesso capo dell’agenzia era un premio Nobel. Perché quello che è interessante è che quando tu hai una mission oriented public agency diventa un onore andarci a lavorare. Se invece sei solo lì a facilitare il lavoro al settore privato, a de-risk, se sei un vero scienziato non hai motivi di andarci. 

In secondo luogo, a prescindere dal livello territoriale di un organismo di questo genere, ciò che è importante capire è l’aspetto organizzativo. Vale anche per la storia italiana: pensiamo alla vicenda dell’Iri. Qui è evidente come il punto non sia se c’è o non c’è bisogno di un’Iri. Guardiamo alla storia. Quando è che l’Iri ha giocato un ruolo importante? Com’era organizzata, chi ci lavorava, com’erano i contratti di queste persone? Per esempio, in Darpa i contratti sono di cinque anni: tu entri e sei invitato, non dico a fallire, ma a fare cose difficili e poi sei valutato non solo in merito al successo che hai raggiunto, ma anche per i rischi che ti sei assunto.

 

L’altra cosa è che oggi siamo in un periodo totalmente deformato: le politiche di austerity stanno infatti provocando un fenomeno esattamente contrario, di crescente centralizzazione. 

Prendiamo ciò che sta succedendo con il governo Cameron nel Regno Unito rispetto a quello che era il Big Society Project: la prima cosa che ha fatto è stato di chiudere i Quango (l’acronimo sta per Quasi-Autonomous Non-Governmental Organisation, ndr) come il Carbon Trust, che era molto interessante – e che rimane oggi ma molto depotenziato – e agiva come un public venture capital fund per l’energia. È stata una delle prime cose che hanno tagliato. Il risultato delle politiche di austerity di un governo come quello di David Cameron non è quindi solo la diminuzione della spesa sociale, ma anche la sua crescente centralizzazione, riducendo questa diversità di organizzazioni decentralizzate e producendo un’immagine di minore importanza del settore pubblico (e quindi un minore interesse nell’andare a lavorare in queste organizzazioni).”

 

Quindi secondo te l’elemento chiave dentro la struttura di questo modello di settore pubblico dinamico e progettuale è rappresentato da una sua molteplicità e varietà interna. La centralizzazione ne rappresenta invece la fine?

“No, il punto è un altro. Il punto non è centralizzato o decentralizzato. Chiunque voglia innovare ha bisogno di capitale paziente. Il modo in cui nel mondo si è realizzato capitale paziente diretto, cioè erogato direttamente da soggetti preposti a farlo (cosa che non avviene per esempio in Italia) è diverso: in Germania lo si è fatto attraverso una grossa banca pubblica, cosi come in Cina; in Usa no. In Finlandia c’è da un lato un’agenzia pubblica centrale per l’innovazione molto grossa (Tekes, agenzia nazionale finlandese per il finanziamento dell’innovazione) ma anche Sitra (Fondo finlandese per l’innovazione) che è un’agenzia periferica. C’è bisogno di tutte e due. Dunque ciò che realmente serve è una molteplicità di organizzazioni, e questo è il fattore chiave, per disegnare un tessuto dinamico e flessibile. E questa molteplicità e dinamicità ha un ruolo importante anche verso il settore privato, che se non ha una parte pubblica con queste caratteristiche con cui confrontarsi diventa inerte. E, alla lunga, diventano inerti tutti e due.

L’altro punto è come valutare, soprattutto quando si parla di bene pubblico. Cos’è un bene pubblico? Il bene pubblico è una market failure: bene pubblico si ha quando c’è un qualcosa su cui è molto difficile ottenere profitti e quindi c’è un sotto investimento da parte dell’impresa privata. È come per la fusione nucleare: perché l’impresa non fa la fusione nucleare? Perché se e quando sarà inventata la fusione nucleare sarà impossibile per un’impresa appropriarsi di questa invenzione così basic che verrà usata da tutti. Un’invenzione i cui spillover potenziali sono così innumerevoli da non poter entrare nel portafoglio di nessuna azienda.

Il punto è che il solo finanziamento pubblico non è mai bastato per farci avere queste general purpose technlogies, come internet o l’elettricità, le nanotecnologie, le biotecnologie, cose che hanno poi degli spillover, delle ricadute enormi in tutta l’economia. Non è mai bastata solo la ricerca di base, ma a monte ci sono sempre state delle scelte, che hanno riguardato non solo la questione del bene pubblico, ma anche l’intervento in tutta la catena dell’innovazione. Lì come si misura il problema: quando stiamo ragionando in termini di bene pubblico non dobbiamo nemmeno porci il problema della valutazione: l’obiettivo è l’open access (tema su cui in questo periodo stiamo facendo enormi passi indietro) e quindi investi finché puoi perché sai che avrai ricadute enormi. Ma proprio perché non basta questo, perché bisogna fare anche la ricerca applicata, di cui una buona parte è destinata – come è normale che avvenga – a fallire, c’è bisogno che questi capitali pazienti vadano alle poche imprese seriamente intenzionate a innovare, e considerare che possano anche dare come esito un fallimento (vedi il caso già citato di Solyndra). È esattamente in questo punto che bisogna chiedersi se è lecito monetizzare, prevedere che lo stato possa guadagnare, oltre che perdere. Non si può far finta che, come si fa per la ricerca di base, la cosa non ha importanza perché tanto le ricadute saranno talmente ampie che il cittadino comunque ne beneficerà. Il mio punto di vista è che proprio non ammettendo che lo stato deve giocare questo ruolo, di stato innovatore, non abbiamo ammesso che la parte pubblica, ossia la collettività, potesse trarre un guadagno da questa innovazione downstream e quindi il processo a un certo punto si blocca. E questo avviene perché non abbiamo più un sistema di tassazione come quello che ha permesso, per esempio, la nascita della Nasa: sotto la presidenza di Eisenhower (un repubblicano e un militare, oltretutto) la tassazione per i più abbienti, l’upper marginal rate, arrivava al 93%!

Negli anni questo sistema di tassazione è stato progressivamente smantellato, queste risorse non ci sono più, e quindi oggi è arrivato il momento di svegliarsi e fare, per esempio, come fa lo stato di Israele mantenendo equity in alcuni di questi investimenti strategici. In altri casi lo strumento può essere una golden share sui brevetti. Magari non per sempre, ma solo finché si decide di giocare questo ruolo di stato innovatore e non lasciare tutti i profitti al privato. Oppure si potrebbe utilizzare un sistema di prestiti come si fa con gli studenti universitari in UK: lo stato ti presta dei soldi per sviluppare il tuo curriculum di studi. Una volta laureato non trovi lavoro? Non mi restituisci niente. Se invece ce la fai, restituisci il debito.”

 

Lo stato innovatore ha quindi necessità di istituire un esplicito “patto sociale” (o politico, se vogliamo) con le imprese?

“Senza dubbio, è può essere un patto semplice come quello citato, per esempio un accordo per reinvestire i profitti realizzati.

Quello di cui c’è bisogno è esattamente questo. Non serve parlare di new deal, ma almeno di un deal, di un patto. Di questo non si può fare a meno. Come Obama ha fatto con la Fiat o come è stato fatto con AT&T nel settore della telefonia. E oggi le grandi aziende hanno livelli record di risorse immobilizzate, che non vengono reinvestite.

Un simile strumento dovrebbe essere parte della politica di innovazione e quindi dovremmo chiederci che tipo di impresa privata serve, per esempio all’innovazione dell’economia in senso green. Tornando agli Usa, sappiamo che la piccola impresa fa poca innovazione, quindi la questione da affrontare sarebbe: che tipo di relazioni con la grande impresa possono essere utili alle poche piccole imprese veramente interessate all’innovazione? Bisogna de-finanziarizzare la grande impresa e dare quindi il tipo di aiuto che serve alle poche piccole imprese che sono davvero impegnate in questo senso. L’obiettivo deve essere creare quell’ecosistema che esiste per esempio in Germania, dove stanno stra-investendo e dove l’ecosistema di cui parliamo vede in azione una banca pubblica specificamente mission oriented (la KfW) e un tessuto di agenzie autonome per la ricerca (come i sessanta istituti raggruppati nella Fraunhofer Gesellschaft) che stanno sostenendo e orientando il processo di innovazione.”

 

L’immagine dello stato come “rallentatore dell’innovazione” è particolarmente solida in Italia. E molti tra i recenti governi hanno fatto moltissimo per accreditarla. Per contro, in alcuni settori chiave dell’innovazione sostenibile, come la bioeconomia, a svolgere una funzione trainante è l’impresa. Alcune direttive dell’Unione europea sono servite a “imporre” strategie di lungo periodo altrimenti assenti, che hanno fornito un supporto ai settori più avanzati dell’impresa privata.

Può sembrare una domanda fuori luogo pensando all’attuale situazione dell’Unione europea di fronte alla crisi greca, ma le istituzioni sovranazionali come la Ue potrebbero svolgere meglio dei governi questa funzione di spinta verso un’innovazione di portata strategica?

“Certo! A patto che quella istituzione non sia essa stessa fonte dei problemi. Per fare fronte alla crisi e rientrare nei parametri richiesti dalla stessa Ue, dal 2009 la Spagna ha tagliato del 40% i fondi pubblici per l’innovazione. Poi tu puoi avere Horizon 2020 che ti dice ‘voilà, ecco 80 miliardi per l’innovazione’, ma intanto hai strangolato quell’ecosistema di agenzie, di soggetti decentrati che è vitale per implementare i processi. E chi ci lavora in istituzioni o agenzie che non hanno più soldi? Se sei un bravo scienziato ci vai volentieri? Certo che no! Vai a lavorare per Bill Gates!

Quindi c’è bisogno sia di un piano nazionale sia di un piano transnazionale che però si muovano in modo coerente. La molteplicità è un fattore positivo, ma oggi in Europa le forze transnazionali si muovono in modo contrario: si riducono i fondi proprio a Horizon 2020, che è il principale programma messo in campo dalla Ue per la ricerca finalizzata all’innovazione sostenibile, per finanziare il Piano Juncker di investimenti in infrastrutture e... nella ricerca!

Se è coerenza questa...”

 

 

Per un approfondimento vedi il volume di Mariana Mazzucato e Caetano C. R. Penna Mission Oriented Finance for Innovation, disponibile online tinyurl.com/pl7yvmm