I servizi che pubblichiamo in questo numero di Materia Rinnovabile sulla questione dei sacchetti di plastica aiutano a guardare all’intreccio tra questione ambientale e questione sociale con occhi freschi.

L’associazione tra shopper e pregiudizi razziali può apparire ardita. Ma le frontiere tecnologiche della plastica compostabile sono molto avanzate e potrebbero far pensare che gli strumenti di difesa ambientale siano appannaggio dei paesi più ricchi: l’ecologia come un’altra barriera tra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo. Gli sforzi di tanti paesi africani per liberarsi dai danni prodotti da un uso scorretto della plastica mostrano invece che il percorso della sostenibilità accomuna situazioni molto diverse. Non c’è necessariamente un prima e un dopo, una crescita industriale che produce danni e una successiva cura dei danni. L’evoluzione umana, come quella naturale, procede per salti. E contesti difficili stimolano nuove idee che, per esempio, possono portare dall’arretratezza all’off-grid bypassando le infrastrutture tradizionali.

Nel caso della plastica la lezione del Ruanda e di altri paesi africani e asiatici raccontati in questo numero fa riflettere. “Nel 2002 il Bangladesh è diventato il primo paese al mondo a vietare le borse di plastica, che avevano intasato il sistema fognario e contribuito al verificarsi di inondazioni catastrofiche. Altre nazioni, tra cui molte africane, hanno fatto lo stesso. Secondo l’Earth Policy Institute di Washington D.C. (dati 2013), 19 paesi del continente hanno applicato divieti totali o parziali, spesso prendendo di mira le borse più sottili che sono quelle più facilmente trasportate dal vento”, scrive Jonathan W. Rosen spiegando che le motivazioni sono molto concrete: in Mauritania il 70% delle morti di pecore e bovini del paese è da imputare all’ingestione di sacchetti di plastica. E nel servizio di Roberto Giovannini si dà conto delle iniziative di riduzione dell’uso della plastica prese da Kenia, Sudafrica, Senegal, Botswana, Gambia, Guinea-Bissau, Mali, Gabon, Etiopia, Malawi, Costa d’Avorio, Mauritania, Uganda, Camerun.

Anche in Italia c’è un Sud in cui la battaglia per l’ambiente e la legalità è aspra. È l’oggetto dello spot in cui Fortunato Cerlino, l’attore che interpreta il boss Pietro Savastano nella serie televisiva Gomorra, fa da testimonial della campagna #UnSaccoGiusto, promossa da Legambiente per contrastare il nuovo business dell’ecomafia: gli shopper finti bio. Circa la metà dei sacchetti in circolazione è illegale. Vuol dire 40.000 tonnellate di plastica taroccata, una perdita per la filiera legale degli shopper compostabili pari a 160 milioni di euro, 30 milioni di evasione fiscale. Cifre a cui va aggiunto il conteggio dei danni ambientali: un aggravio dei costi di smaltimento dei rifiuti quantificato in 50 milioni di euro. Si tratta di una filiera illegale che ruba fatturato all’economia sana, sottrae risorse all’erario e danneggia l’ambiente.

Anche in questo caso un’alternativa è possibile. E lo dimostra la nascita a Castel Volturno, nella Terra dei fuochi, di Coop Ventuno, una cooperativa che ha deciso di impegnarsi nella produzione di bio shopper e oggetti realizzati con materiali provenienti dalla raccolta differenziata. L’hanno fondata Massimo Noviello e Gennaro Del Prete, figli di due protagonisti della battaglia contro le cosche: Federico Del Prete era un sindacalista dei venditori ambulanti ucciso perché aveva denunciato il racket degli shopper illegali, Domenico Noviello era un imprenditore assassinato per aver fatto condannare alcuni emissari del clan dei Casalesi. “Liberare il mercato dagli shopper illegali significa aprirlo ai produttori di bioplastiche compostabili, con un aumento degli investimenti nel settore che garantirebbe nuova occupazione pulita”, spiegano i fondatori della cooperativa. I due milioni di visualizzazioni dello spot in tre settimane, con oltre sei milioni di persone raggiunte dal messaggio, dimostrano che quando la partita si gioca a tutto campo i risultati arrivano.