“Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro
e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete,
l’olmo e il bosso.” Se dunque desideri
di possedere di questi alberi in abbondanza
o se brami di essere tra loro annoverato,
tu chiunque sii, studiati di entrare nella
quiete della solitudine...

Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà
della tua sincerità e della tua dignità;
Biancospino per lo stimolo alla correzione
a alla conversione; Mirto per la discreta
sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità
di opere di letizia, di pace e di misericordia;
Abete per elevata meditazione e sapienza;
Olmo per le opere di sostegno e pazienza;
Bosso perché informato di umiltà e perseveranza.

 

Tratto dal Liber eremiticae regulae
aditae a Rodulpho eximio doctore

Biblioteca della città di Arezzo,
cod. 333, sec XI 

Traduzione di Padre Salvatore Frigerio
– SLM – Sopra il Livello del Mare, n. 11, 2003

 

La Regola dei Camaldolesi, a cui dobbiamo il primo codice forestale della storia, ci rimanda alla straordinaria molteplicità di sensi e di funzioni della materia fondamentale di cui si occupa la bioeconomia: il mondo vegetale. Oggi le società occidentali ne riscoprono a modo loro l’importanza.

“Nel lungo periodo i combustibili fossili non saranno più disponibili a un prezzo vantaggioso e la biomassa sarà la fonte primaria di carbonio per l’economia globale.” 

Così si annunciava l’era della biobased economy nelle parole di una dirigente della Commissione europea. Il mondo vegetale qui si riduce a un’astratta e informe risorsa, la biomassa, ampiamente disponibile sul pianeta, da sfruttare come fonte di energia e materie prime.

Certo, anche Camaldolesi e Francescani facevano un uso economico del bosco, ma in un rapporto assai più complesso che coinvolgeva la sfera dell’utile e al tempo stesso della spiritualità, della poesia e della bellezza. Il bosco era il cosmo o l’intermediario del cosmo. Nel linguaggio spesso riduttivo della politica e dell’impresa, che è poi il nostro linguaggio quotidiano, si prefigura invece un potenziale di opportunità, ma anche di rischi. 

Per quanto più laici di San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, per entrare con successo nella bioeconomy non potremo trascurare la molteplicità di funzioni che il mondo vegetale assolve per la nostra vita. Non potremo fare a meno neppure della sorpresa, della poesia e del rispetto per un albero in fiore. Non potremo fare a meno di economie più solidali e di un rapporto con le risorse diverso dall’usa e getta. Se ridurremo tutto a biomassa la scommessa è già persa. 

Guercino, San Romualdo, 1640-41, Pinacoteca Comunale, Ravenna

 

Una straordinaria sfida economica ed ecologica

In estrema sintesi bioeconomia significa che il motore dell’economia dei prossimi decenni saranno le risorse rinnovabili di origine biologica, in progressiva sostituzione del petrolio e delle altre sostanze fossili. Risorse che vengono dalle piante, dagli animali, dalle alghe e dagli organismi che vivono nel mare; ma anche da funghi, batteri, lieviti nonché dalla parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. 

Assumendo materie prime biologiche e rifiuti come base dei prodotti di domani, si apre una straordinaria sfida economica ed ecologica. 

Tre i vantaggi offerti dalle materie prime biologiche: sono potenzialmente non esauribili; in genere meno inquinanti e meno tossiche dei loro omologhi fossili; producibili sul territorio e in grado di garantire maggiore autonomia energetica e politica.

Il motore principale di questo sviluppo è la chimica verde, ossia il complesso di conoscenze e tecniche che ci consentono di estrarre dalla biomassa sostanze ad alto valore aggiunto. 

Il mondo biologico offre una ricchezza di molecole e composti notevolmente più ampia di quella offerta dagli idrocarburi derivati dal petrolio. A partire dai cosiddetti metaboliti, ossia le molecole prodotte dal metabolismo delle piante, attraverso sofisticati sistemi di demolizione e costruzione. Alcuni sono comuni a tutti gli esseri viventi: proteine, carboidrati, lipidi e acidi nucleici. Sono i metaboliti primari, ottenuti dalla demolizione del glucosio che rappresenta il motore energetico principale della cellula e che la pianta costruisce da sé con la fotosintesi. Ma le piante producono anche una straordinaria varietà di altre molecole specializzate – i metaboliti secondari, noti anche come princìpi attivi – connesse alla vita di interrelazione con l’ambiente. Molecole come i terpeni, gli alcaloidi, i polifenoli, i glucosidi e così via, che servono alle piante per attrarre, respingere, neutralizzare, risanarsi o per altre funzioni. I metaboliti secondari sono migliaia di molecole diverse e in continua evoluzione. Di parecchie ancora oggi si conoscono solo le principali proprietà. Nella pianta di canapa per esempio sono stati identificati finora oltre 480 composti chimici diversi. 

Da questo straordinario complesso di molecole e materiali offerti dal mondo vegetale la chimica verde può ottenere un’enorme varietà di prodotti. E naturalmente materie prime energetiche: biocarburanti e biocombustibili solidi, liquidi e gassosi. 

 

Diventare più efficienti non basta

Le prospettive aperte dalla bioeconomia sembrano dunque molto promettenti. Senza dimenticare che l’agricoltura in questa sfida dovrebbe recuperare il suo ruolo di attore primario dello sviluppo, in quanto fonte principale di queste risorse biologiche. 

Ma quando si guarda alla fonte ci si scontra con il fatto che il suolo è una risorsa limitata. 

Come si concilia il ritorno all’agricoltura come fonte di beni primari con la previsione di una popolazione di 9 miliardi di individui e di consumi di proteine in continua ascesa? Gli ecosistemi terrestri sono in grado di soddisfare questa crescita di aspettative senza subire alterazioni irreversibili? La pressione della nostra specie sugli ecosistemi è infatti arrivata al limite di tolleranza. Anzi in molti casi ha superato quel limite, come ci ha avvisato – tra gli altri – Johan Rockström.

Una sfida simile implica un salto di efficienza nei flussi di materia e di energia, in modo da ridurre al minimo il consumo di risorse naturali e la produzione di scarti. 

Ma non basta diventare più efficienti. Questa sfida non si risolve solo con la tecnologia e non si vince solo dal lato della produzione, ma anche e soprattutto dal lato dei consumi, ossia degli stili di vita delle persone e delle comunità urbane.

 

Fare i conti con l’entropia

L’ingresso nella bioeconomia esige di ripensare anche i fondamenti teorici dell’economia e del suo rapporto col mondo fisico. Le basi fondamentali di un pensiero in grado di conciliare economia ed ecologia vanno ricercate negli scritti dell’economista che per primo ha coniato il termine bioeconomia: Nicholas Georgescu-Roegen. Statistico e matematico prima ancora che economista, fu definito da Paul Samuelson “The Economist of the Economists”, anche se a differenza di Samuelson non ebbe mai il Nobel. Forse perché rappresentava un’anomalia rispetto alle scuole di pensiero dominanti. Georgescu-Roegen denunciò il fallimento della teoria economica neoclassica concentrata sulle utilità immediate: l’utilitarismo ha sempre considerato le risorse naturali come gratuite. 

Il fatto elementare che la maggior parte degli economisti del ’900 ha trascurato è che l’economia ha a che fare innanzitutto con flussi di energia e di materia. Secondo Georgescu-Roegen gli economisti, sono rimasti indietro di due secoli nella conoscenza scientifica, aggrappati al confortante meccanicismo di Laplace dove ogni processo, compreso il ciclo economico, è perfettamente riproducibile. 

Ma nel mondo fisico vige il secondo principio della termodinamica: i processi di conversione energetica non sono reversibili. Ovvero nulla può tornare come prima. Non può farlo una storia d’amore, ma neanche un pezzo di carbone. La legge dell’entropia regola non solo l’evoluzione dell’universo, ma anche tutta la nostra produzione energetica e industriale. Se sul piano esistenziale l’entropia evoca l’ineluttabilità del degrado, sul piano economico il concetto di entropia ha a che fare col concetto di utilizzabilità. 

Questo è il problema che si addensa sul nostro futuro: non è importante “quanta” energia abbiamo sul nostro pianeta, ma quanto di essa è “utilizzabile”. 

 

All’orizzonte le nuove generazioni di biocarburanti 

Il problema della produzione energetica è centrale anche nella bioeconomia. Oggi a livello mondiale uno dei principali vettori di sviluppo delle bioraffinerie sono i carburanti di origine vegetale – etanolo e biodiesel in particolare – proprio come la benzina con la petrolchimica.

È vero che ci si aspetta grandi cose dalla terza generazione dei biocarburanti – quella delle microalghe – e che all’orizzonte si profila la quarta generazione, quella della fotosintesi artificiale, sperimentata la prima volta negli anni ’90 al Lawrence Berkeley National Laboratory in California, sotto la direzione di SteveN Chu, premio Nobel per la fisica. 

Combinando luce solare, acqua non potabile, CO2 di scarto industriale e cianobatteri geneticamente modificati, si potrebbe produrre diesel ed etanolo solari. Il tutto con un minimo utilizzo di suolo e risorse idriche. 

Ma al momento di biocarburante solare o 4G non è stato venduto neppure un litro.

In attesa delle promesse della quarta generazione, questa dipendenza della produzione di energia può diventare un limite e creare confusione tra i fabbisogni dell’industria energetica e quelli della chimica. Se ragioniamo in termini di consumi energetici, è illusorio pensare che utilizzando l’enorme giacimento di residui agricoli e forestali, anziché colture dedicate di mais e canna da zucchero, si risolva il problema dell’approvvigionamento. 

L’Accademia delle Scienze tedesca, Leopoldina, ha fatto un po’ di conti. A osservare la figura 1, la biomassa prelevabile in modo sostenibile, cioè senza ridurre o compromettere la copertura vegetale terrestre, sembra in grado di coprire più dell’intero fabbisogno energetico mondiale (dati 2010). Così potrebbe essere se per assurdo si rinunciasse a tutti gli altri impieghi. Attualmente di questo potenziale se ne preleva poco più di un terzo, in gran parte destinato a usi non energetici: cibo e foraggi (oltre 90%), materiali da costruzione, chimica verde. Quand’anche arrivassimo a prelevare tutto il potenziale indicato in figura, i consumi alimentari saranno notevolmente cresciuti visto l’aumento della popolazione mondiale e i cambiamenti nei modelli alimentari globali. Anche nei prossimi decenni, quindi, la biomassa potrà fornire un contributo ai consumi mondiali di energia (in forte crescita) non molto superiore al 10% attuale, se pure con i biocarburanti di seconda generazione e non con la legna da ardere. 

 

 

Il caso (diverso) delle materie plastiche

Ben diverso è il consumo di materie plastiche o di lubrificanti, per citare due settori dell’industria chimica coi maggiori volumi di produzione globale. È stato stimato che il 96% di tutti i beni fabbricati negli Usa contiene almeno un prodotto chimico. Ma per quanto abbia invaso tutti gli spazi della nostra vita, la produzione di plastiche, a livello mondiale, è responsabile di meno del 4% del consumo annuo complessivo di petrolio. Stiamo quindi parlando di due ordini di grandezza in meno. 

In breve, se l’obiettivo principale è produrre carburanti, i volumi di produzione implicati sono molto grandi e le scale di impianto difficilmente compatibili con le risorse di territori come la gran parte di quelli europei. Per questo tipo di impianti le materie prime sono in genere importate da diversi continenti in base alle quotazioni del mercato. 

Ma in molti casi la produzione di energia può diventare una variabile dipendente di altre produzioni. Per esempio la nuova bioraffineria Matrìca di Porto Torres, è dimensionata per produrre innanzitutto biopolimeri, basi per biolubrificanti, oli estensori per le gomme, bioerbicidi. È prevista anche in questo caso una produzione energetica, ma basata sulla biomassa residua che non può trovare ulteriori utilizzazioni ad alto valore aggiunto, quindi in finale di processo e tendenzialmente dimensionata sui residui della biomassa lavorata.

Questo rovesciamento delle priorità tra usi energetici e altri usi (cibo, mangimi, materiali, intermedi chimici) è un punto cruciale per lo sviluppo di una bioeconomia basata su modelli di bioraffinerie territoriali integrate, sistemi tecnologici flessibili che utilizzano una varietà di risorse specifiche, prodotte o disponibili a livello locale, per ottenere un’ampia gamma di prodotti biobased. Questo approccio è fondamentale soprattutto per paesi poveri di terra come l’Italia e come, in generale, l’Europa.

Una bioraffineria territoriale integrata presenta diversi vantaggi potenziali:

  • opera in genere su impianti di piccola e media scala, mai sovradimensionati rispetto alla disponibilità di risorse locali, e in tal modo offre maggiori garanzie di tracciabilità e sostenibilità delle materie prime che utilizza;
  • può garantire più ampie ricadute di ricchezza sul territorio in cui opera e il coinvolgimento attivo del mondo agricolo locale, cosa pressoché impossibile con un grande impianto delocalizzato per produrre biocarburanti. In tal modo ottiene maggiore consenso sociale;
  • essendo la sua produzione legata a specificità territoriali, non è facilmente esportabile laddove manodopera e consenso si possono acquistare a miglior prezzo dalle popolazioni locali. 

Questo modello di bioraffineria, a differenza di quella basata esclusivamente sulla produzione di energia, può essere addirittura di nicchia, ma comunque in grado di generare un alto valore aggiunto grazie alle qualità ambientali dei bioprodotti che ne possono derivare.

 

La bioraffineria inizia in campo 

Ma la bioraffineria non è solo l’impianto industriale. Finché la biomassa vegetale sarà la fonte prioritaria della bioeconomia, la sostenibilità della fase agricola gioca un ruolo fondamentale nell’intera filiera. Un’eccessiva pressione sugli ecosistemi o un eccessivo impiego di lavorazioni meccaniche e input chimici per la fase di coltivazione è la premessa per filiere a bassa sostenibilità o peggio ancora per la perdita di fertilità dei suoli. 

La bioraffineria inizia in campo e non può che iniziare in campo se vuole assicurare materie prime di qualità e sostenibilità della filiera, non solo sul piano energetico e ambientale, ma anche sociale. Non è pensabile che la bioeconomia prosegua la tradizionale separazione tra un agricoltore fornitore di materie prime indifferenziate a basso prezzo e un trasformatore industriale che compra il seme o la fibra laddove il prezzo è più basso. 

La bioraffineria inizia anzi dalla pianta stessa. Qui si apre un enorme campo di ricerca e innovazione. Siamo abituati a consumare nel mondo centinaia di milioni di ettari di suolo fertile per una monocoltura e per utilizzare una minima parte di questa monocoltura (per esempio la cariosside del grano). Non sappiamo ancora utilizzare l’enorme ricchezza di sostanze e molecole che una pianta può offrire. Anche quelle che chiamiamo colture dedicate e che oggi trattiamo con un certo disprezzo perché evocano enormi distese di mais per produrre unicamente carburanti, in realtà potrebbero avere molteplici impieghi sia food sia non food. Perché un agricoltore dovrebbe coltivare canapa solo per vendere paglia all’industria senza valorizzare il seme per usi nutrizionali? Perché considerare il cardo una coltura solo non food (che secondo alcuni ruba spazio alla produzione di cibo), quando il suo panello residuo potrebbe fornire un ottimo integratore alimentare alla zootecnia locale, sostituendo l’importazione di soia Ogm?

Un pensiero economico che assuma il problema della scarsità come orizzonte di lungo periodo non può fare a meno dell’ecologia. Questo è il compito fondamentale della bioeconomia. 

E si potrà allora scoprire il senso reale dell’attività economica, come ci suggerisce Georgescu-Roegen: “il vero output del processo economico non è un flusso materiale di scarti, ma un fluire immateriale: il godimento della vita”.

 

 

Immagine in alto: Particolare di bordo miniato di Jean Bourdichon tratto da Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne, c. 1503-1508