Altrettanto “già sentite” sono le parole sul ruolo chiave del design nel trasformare il modo in cui i prodotti – dai più semplici ai più complessi – vengono progettati. All’ecodesign è dedicata una specifica direttiva della Commissione europea che lo individua come una delle strategie chiave per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica al 2020.

Questo concetto di efficienza “ecologica” va però necessariamente esteso all’uso dei materiali, uno scenario in cui la cultura industriale sembra aver colto prima della politica l’urgenza del mutamento.

Ne parliamo con Marco Ferreri, architetto, designer e artista, cresciuto a contatto con la generazione dei Maestri del design italiano e tra gli interpreti più lucidi della contemporaneità.

 

L’alluminio è uno dei materiali più presenti nel “paesaggio materiale quotidiano”, come testimonia il portfolio di immagini still-life che arricchisce questa pubblicazione, sia in tanti altri settori. Che ruolo ha secondo te l’alluminio nella costruzione del nostro immaginario materiale?

“L’alluminio si caratterizza come materiale della modernità, materia che ti permette di essere leggero e resistente, con cui raggiungere risultati prima impensabili: basti pensare allo sviluppo che ha permesso a un’industria come quella aeronautica, nata su materiali come legno e tela. 

Da lì, la cosa fantastica dell’alluminio – e lo si vede dalle immagini – è la ricerca continua della prestazione migliore. Pesi già leggeri che grazie al continuo assottigliamento della materia diventano quasi impalpabili; sembra la ricerca di ottenere il filtro minimo tra utilizzatore e contenuto. Le prime lattine stampate, per esempio, pesavano; negli ultimi venti anni questo peso si è ridotto di quasi il 20%, fino agli attuali 12 grammi e mezzo. 

Le foto del portfolio sono affascinanti anche perché tolgono la grafica, facendo emergere l’identità dell’oggetto non quella della marca che nella realtà sovrasta l’immagine del materiale. In queste figure iconiche emerge quindi la loro essenza di oggetti minimi, cosa che è sempre stata al centro della mia ricerca. In questa galleria d’immagini l’alluminio rivela la sua capacità di essere esente dalla contaminazione di un’idea di lusso che tende al barocco, al ‘tanto’, non solo in senso formale, ma anche di prezzo.

Il lusso dell’alluminio è lusso democratico, è igiene per tutti (se si pensa a imballaggi e contenitori per esempio), è caratteristica intrinseca al materiale. È un lusso anche l’energia necessaria a produrlo, e per questo è importante educare le persone a riciclare, per esempio anche le capsule delle bottiglie di vino, cose che normalmente non consideriamo poter essere reimmesse utilmente in un ciclo della materia.

Se dovessi quindi identificare con quale ruolo l’alluminio partecipa a definire il nostro paesaggio materiale metterei in evidenza proprio questa ricerca della prestazione utilizzando sempre meno materia. Come se l’efficienza fosse una proprietà dell’alluminio, qualcosa che il materiale suggerisce al progettista e che lo distingue sin dall’inizio da altri materiali, da altri metalli.

È, come dire, un materiale che nasce ‘prestazionale’ e poi la tecnologia, il sapere dell’uomo, la conoscenza – necessaria trattandosi di un materiale il cui utilizzo si presta molto meno di altri al do-it-yourself – lo mettono a punto e creano questi oggetti senza tempo, oggetti solo di prestazione. È questa secondo me la sua grande diversità. Se devo realizzare una scala uso il ferro, perché lo trovi dappertutto e non ti richiede particolari conoscenze, per esempio per la saldatura. Ecco, l’alluminio è nobile anche in questo: richiede il sapere. E nel contemporaneo questo mi sembra particolarmente giusto, è la sfida giusta: fare le cose, dire le cose, sapendo le cose.

Sempre ricordandosi che il progetto – e questa è una caratteristica tutta italiana del design – è qualcosa che tiene insieme cultura tecnologica e cultura umanistica.” 

 

Che ruolo può avere quindi il design in questo scenario? 

“Il design può svolgere un ruolo fondamentale, se capisce la sfida. Uno dei miei maestri è stato Elio Cenci, che editava quarant’anni fa la rivista Design il cui sottotitolo era ‘strumento per migliorare la qualità della vita’. In questo hai già il manifesto del design. La soluzione, per capirci, non è nella sedia che progetti, ma nelle indicazioni che puoi dare attraverso quel progetto. Oggi può essere veramente il momento migliore per ripensare al senso di questo mestiere. E l’assenza di critica vera, da questo punto di vista è un grande problema, fa sì che ci sia una melassa di informazione in cui siamo tutti contenti e come Thelma e Louise andiamo in macchina verso il burrone.”

 

Tu hai sempre lavorato su oggetti del quotidiano, oggetti minimi come la scopa e la paletta per esempio...

“Si è vero, sono progetti che cercano di capire come possa cambiare il rapporto fra l’uomo e le cose che usa. Rapporto che si modifica inevitabilmente, perché cambiano i modi di stare insieme. Sicuramente il progetto deve entrare nell’evoluzione della società, e l’evoluzione della società è quella che ci grida le nuove esigenze. Nell’abitare, per esempio, non è più sugli oggetti che si dovrebbe concentrare il progetto, ma sulle nuove forme di comunità, sempre più diversificate. Dormiamo tutti alla stessa maniera? Cuciniamo tutti alla stessa maniera? Trovare un minimo comune denominatore è la grande sfida della progettazione. Poi le cose vengono arricchite, modificate da chi le usa. 

Nel pensare le cose va considerato il fatto che poi le persone se ne impossessano e le modificano. Oggi mi sto occupando un po’ di agricoltura e vedo per esempio che i trattori sono tutti uguali quando escono dalla fabbrica, ma una volta che l’agricoltore ne entra in possesso vengono modificati ed elaborati al fine di renderne più efficace e personalizzato l’utilizzo. Il design deve continuare a occuparsi di tutto ciò.”

 

Cos’è questa storia del designer contadino?

“È stato un modo di tornare a progettare per un mondo reale. Se ci pensi l’agricoltura, che oggi se fatta a livelli alti è una cosa da scienziati, ha comunque e sempre più di un parametro con cui confrontarsi: come il tempo (quello necessario a far crescere il raccolto) e la stagionalità; e poi c’è la variabile clima, che rende il tutto simile a un gioco d’azzardo. Ma pur con tutte queste incertezze hai comunque la certezza che se fai bene tutte le cose che devi fare alla fine hai un risultato. Ecco, oggi nel mio mestiere queste cose non le ritrovo più, per cui ho avuto un bisogno quasi fisico di confrontarmi non con dei clienti che non sanno neanche cosa chiederti, ma con dei dati del reale.”

 

Nel corso della tua carriera hai avuto modo di lavorare con alcuni dei maestri del design italiano: Angelo Mangiarotti, Bruno Munari, Marco Zanuso. Progettisti che operavano all’interno di una cultura dove le materie su cui applicare la creatività progettuale sembravano appartenere a un catalogo infinito, fino ad arrivare agli anni ’80 quando si parlava di “iperscelta dei materiali”. Come è cambiata oggi la cultura del progetto, in un contesto dove i limiti materiali del nostro agire si definiscono ogni giorno più chiaramente?

“Alcuni di questi maestri in realtà realizzavano cose bellissime ma, a volte, con una limitata consapevolezza degli aspetti tecnici. Questo vuol dire che c’era un tessuto industriale (anche se in certi ambiti ‘industriale’ è decisamente una parola troppo grossa) che sceglieva un progettista, gli credeva fino in fondo, gli metteva a disposizione risorse e dava alla fine fisicità al sogno di questa persona.

Oggi è vero che ci sono crescenti limiti ‘materiali’ ma è anche vero che siamo in grado di caricare sempre di più queste materie che abbiamo a disposizione delle caratteristiche e delle funzioni che ci servono. Ovviamente questo può creare problemi proprio per il riciclo, ma sicuramente la conoscenza delle cose – e di ciò che possono fare – è incredibilmente aumentata. E anche per questo il designer non può più lavorare come un isolato risolutore di problemi, ma deve integrare il proprio sapere con altre competenze.

Tutto ciò fa a pugni con una concezione del prodotto ancora e troppo spesso pensata per un’obsolescenza in tempi assurdi rispetto al valore che questo incorpora. Se il case del tuo computer è in alluminio, la sua durata è potenzialmente enorme. Che senso ha rivestire con un materiale del genere un prodotto che si fa scadere magari nel giro di un anno?

Va cambiato l’atteggiamento anche da parte delle aziende. Mi chiedo se queste, ma anche il consumatore, siano pronti a fare questo salto. C’è, e torniamo a cose già dette, un fondamentale problema di educazione.”