La gerarchia delle priorità nella gestione dei rifiuti è definita – a livello sia comunitario sia nazionale – da ormai diversi anni. In questa gerarchia la prevenzione occupa il primo posto, ma la sua realizzazione appare piuttosto complessa, poiché necessita di una serie coordinata di azioni congiunte tra tutti gli attori sociali. 

Azioni che oggi, invece, avanzano in modo scomposto e si posizionano più sulla forma che sulla sostanza. Infatti, si tende a modificare, spostandolo in avanti, il momento in cui un rifiuto diventa tale (fine del suo ciclo di vita e non più fine del suo ciclo di utilità per qualcuno – “disfarsi”). Così, in modo semplicissimo, i rifiuti cessano di esistere senza che a questo corrisponda un disegno unitario anche in termini di parità di trattamento con gli impianti industriali di riciclo. 

È solo una sfumatura lessicale, ma è potentissima. La differenza non è nel materiale; è solo nel nome. Così quello che in precedenza era sempre e sistematicamente un rifiuto, dove dominava il concetto di “disfarsi”, oggi si sta trasformando (sotto il profilo della gestione) in qualcosa che rifiuto non è perché si allunga il suo ciclo di vita.

Per non essere rifiuti, basta che si parli di riutilizzo e che gli “ex rifiuti” non vadano in un impianto di recupero autorizzato per i rifiuti, ma in un altro luogo che, pur essendo nella sostanza un impianto di recupero (la cernita, per esempio, è una operazione preliminare al recupero – R12– che va autorizzata), nella forma si comporta come non lo fosse. 

Quindi, nessun adempimento di quelli tipici afferenti la gestione dei rifiuti (autorizzazioni, formulari, registri, fideiussioni ecc., confronto sistematico con la Pa, sicurezza nei luoghi di lavoro ecc.) a tutto svantaggio della concorrenza leale tra imprese, che si polverizza sotto il maglio di esigenze sovraordinate quali le iniziative di solidarietà sociale e la riscoperta della voglia di aggiustare tutto e di non buttare nulla (Do it yourself, Fixer, Repair café ecc.).

Si tratta allora di capire se e come la legislazione di riferimento comunitaria e nazionale, sostenga questa nuova tendenza; mentre a livello locale si moltiplicano piani di prevenzione che del riutilizzo dei non rifiuti fanno il loro credo principale. Quindi, il riutilizzo dei non rifiuti e il riciclaggio dei rifiuti sembrano ormai essere in una non sanabile rotta di collisione, dove per eliminare gli sprechi (e quindi i rifiuti) moltissime cose si accingono a uscire dal ciclo del controllo del sistema pubblico che, con i piani di prevenzione, tale sistema conferma e avalla, modificando di fatto la nozione di rifiuto.

 

Da rifiuto a risorsa

I rifiuti e lo spreco sono una preoccupazione ambientale, ma anche un cruciale problema economico. Del resto, a parte le definizioni legislative, il rifiuto è una risorsa messa in un posto sbagliato.

Prevenire la formazione dei rifiuti significa dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali a essa connessi. 

Occorre dunque un nuovo approccio che consideri l’intero ciclo di vita dei prodotti per sostituire l’usa e getta con il modello di economia circolare, facendo sì che i prodotti vadano “dalla culla alla culla” e non “dalla culla alla tomba”.

Ma l’economia circolare non si realizza cambiando nome a quelli che, allo stato attuale della legislazione, sono rifiuti. Per rimettere in circolo le risorse e riavviare il processo produttivo occorre una vera e propria rivoluzione culturale che passi anche attraverso la modifica della nozione legislativa di “rifiuto” (ovviamente, a livello europeo). 

Oppure, si dovrà procedere “caso per caso”. Come sembra ipotizzare il Commissario Ue all’Ambiente in un’intervista al Sole 24 Ore dello scorso 26 maggio: “vogliamo che le nostre proposte riguardo ai rifiuti siano più specifiche per paese, tali da migliorare l’adozione delle politiche a livello locale. Dovremo quindi verificare con attenzione problemi di violazione delle regole, essenziale per assicurare una effettiva applicazione”.

L’Europa, dunque, sembra avviarsi al caso per caso. E l’Italia mai come ora si trova a un bivio dove la complessità e l’onerosità del sistema di gestione dei rifiuti si scontra con la necessità di recuperare risorse senza troppi vincoli e condizionamenti. 

La fondamentale ambiguità della definizione di “rifiuto” è antica, ma è stata risolta dalla Corte Ue. 

In questo momento il problema della mancanza di regole chiare e uguali per tutti si è amplificato con la globalizzazione economica accompagnata dalla sempre più dirompente finanziarizzazione del capitalismo e dell’economia mondiale. Il più che concreto rischio oggi è che, a parità di materiale, il dovuto obbligo di solidarietà diventi lo strumento per aggirare la disciplina a detrimento di chi, invece, se ne fa carico.

 

La disciplina di riferimento e il non rinunciabile paradigma delle definizioni

Le norme in materia di riciclo e recupero sono contenute ovviamente nel “Codice ambientale” (articoli 208, 214 e 216) nonché nel Dm 5 febbraio 1998 (per il recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi), nel Dm 12 giugno 2002, n. 161 (per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi dove non è compreso il recupero energetico) e nel Dm 17 novembre 2005, n. 269 (per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi provenienti dalle navi).

Si ritiene sia estremamente evidente come la legislazione di riferimento (Dlgs 152/2006) si occupi di riutilizzo di rifiuti che esitano da un processo di preparazione per il riutilizzo e non di prodotti che, pur riparati/puliti ecc. non entrano nel processo di preparazione per il riutilizzo. 

Questo perché il Dlgs 152/2006 disciplina solo le attività di gestione dei rifiuti e non l’utilizzo o l’impiego di beni e prodotti che non rientrano nella definizione di rifiuto. Il che deve condurre a capire cosa sia un rifiuto. L’annoso dilemma si ricollega al significato del termine “disfarsi” ma, nonostante i richiamati interventi della Corte di Giustizia Ue, le azioni locali sul territorio nazionale, sono spesso molto distanti dall’acquis comunitario, soprattutto in presenza di progetti di solidarietà sociale. 

Nella prospettiva comunitaria, 

  • Cass. Pen. sez. III 2 dicembre 2014, n. 50309 ha valorizzato, ai fini della non ricorrenza del concetto di “disfarsi”, la irrilevanza dell’ottica altrui nello sfruttamento del bene. Infatti, ha affermato che per valutare se un residuo costituisca rifiuto o meno, occorre porsi nell’ottica esclusiva del soggetto che lo produce (o lo detiene) e non in quella di chi ha interesse al suo utilizzo. Con questa motivazione la Corte ha confermato la condanna per gestione non autorizzata di rifiuti nei confronti del titolare di un’impresa che acquistava da imprese terze pallets difettati, non riutilizzabili tal quali, per poi ripararli e rivenderli. La Suprema Corte ha sottolineato che il termine “disfarsi”, previsto dalla definizione ufficiale di rifiuti, comprende gli oggetti ormai inservibili e destinati a essere dismessi da colui che li possiede, anche mediante un negozio giuridico. Non rileva pertanto l’interesse che altri possa avere allo sfruttamento del bene non più utile al suo detentore, “poiché tale interesse non trasforma il rifiuto in qualcosa di diverso”. Non essendo “certa sin dall’inizio” la destinazione al riutilizzo di un manufatto (nella fattispecie pallets) è escluso anche che lo stesso possa essere considerato sottoprodotto. La sua riparazione, di conseguenza, rappresenta un’attività di recupero di rifiuti e deve essere autorizzata a norma di legge;
  • Cass. Pen. Sez. III 19 dicembre 2014, n. 52773 si è pronunciata in termini di assoluta definitività quando ha stabilito che non c’è alcun dubbio che il materiale florovivaistico di scarto, depositato in maniera incontrollata in area demaniale, costituisca oggettivamente un rifiuto.
     A prescindere dall’esame delle diverse e note posizioni di dottrina e giurisprudenza sulla corretta individuazione del termine “disfarsi” presente all’interno della definizione di “rifiuto” (articolo 183, Dlgs 152/2006), infatti, la Suprema Corte è “assolutamente certa che, secondo i principi generali ormai consolidati, debba ritenersi inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti”.

In ordine alle (altre) definizioni si osserva che l’articolo 183, comma 1, Dlgs 152/2006 fornisce le seguenti:

s) trattamento operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento;

t) recupero qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale…” (quindi il rifiuto da tempo non è più una passività);

u) riciclaggio qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il trattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento (quindi, il riciclaggio è una operazione di recupero). 

Si è già detto che la disciplina sui rifiuti non si occupa dei prodotti. Per questo motivo è stata coniata la “preparazione per il riutilizzo” da cui esitano prodotti che possono essere oggetto di “riutilizzo”. Anche queste operazioni sono definite dall’articolo 183, comma 1, Dlgs 152/2006:

q) preparazione per il riutilizzo le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento;

r) riutilizzo qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti.

Anche il profilo sistematico (il riutilizzo – lett. r- segue la preparazione per il riutilizzo – lett. q) conferma il fatto che è riutilizzabile come “non rifiuto” solo quello che proviene dalla preparazione per il riutilizzo essendo essa propedeutica al riutilizzo.

Il piano nazionale di prevenzione dei rifiuti di cui al Dd 7 ottobre 2013 sul riutilizzo è piuttosto confuso e rimette tutto ai futuri Dm di cui all’articolo 180-bis, comma 2, Dlgs 152/2006 che dovranno definire le modalità operative per la costituzione e il sostegno di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo, ivi compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate e di un catalogo esemplificativo di prodotti e rifiuti di prodotti che possono essere sottoposti, rispettivamente, a riutilizzo o a preparazione per il riutilizzo. 

 

La natura delle norme in materia di rifiuti

Le norme in materia di rifiuti sono norme di diritto pubblico poiché riguardano l’organizzazione dello stato e degli altri enti pubblici e i rapporti nei quali lo stato o gli altri enti pubblici possono esercitare un potere di comando nei confronti dei cittadini; quindi, non possono essere derogate con atti di diritto privato. Pertanto, si ritiene che l’istituto della donazione non faccia perdere a quanto immesso nei cassonetti recanti la scritta “donazione” la natura di rifiuti.

Anche i rifiuti hanno valore commerciale ma l’ordinamento ha voluto massimizzarne il controllo e la tracciabilità e, per esempio nel caso degli abiti usati, anche l’igiene prima di poter essere reimmessi nel circuito commerciale o di utilizzo, come previsto dal Dm 5 febbraio 1998.

Inoltre, le norme in materia di rifiuti sono norme di stretta interpretazione; quindi in caso di dubbio l’interprete non può attribuire alle disposizioni un significato restrittivo o lesivo dei diritti fondamentali da esse previste. Per questo motivo le norme che prevedono situazioni di favore (es. sottoprodotti) integrano gli estremi “di disposizioni aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che, come più volte affermato da questa Corte, l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne invoca l’applicazione” (Cass. Pen. sez. III 27 giugno 2012, n. 25358). Pertanto, la rigidità della definizione di “rifiuto” impone sempre la dimostrazione del contrario a carico del soggetto che vuole agire il regime di favore. Anche in caso di riutilizzo.

 

Le deroghe 

La direttiva 2008/98/Ce promuove una “società del riciclaggio” e non del riutilizzo. Qui si trova una ulteriore conferma del fatto che il riutilizzo è posto a valle della preparazione per il riutilizzo che è una operazione di recupero di rifiuti e che, come tale, va sempre autorizzata. È strano, ma quando si parla di economica circolare tutti cercano di sbarazzarsi del concetto di rifiuto. E invece i rifiuti sono la sorgente dell’economia circolare e con questi occorre confrontarsi, anche sotto il profilo amministrativo, ricordando sempre alla Pa che, in materia di ambiente, è titolata del potere esecutivo e non di quello legislativo esclusivo. 

Si è già detto che la legge non è flessibile. Quando ha voluto esserlo lo ha fatto in modo esplicito e diretto, senza confusione e ambiguità. Vediamo come e quando: 

1) ha escluso esplicitamente dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti alcune cose 

art. 185, Dlgs 152/2006 esclusione dal campo di applicazione (es. materiale agricolo usato per produrre energia);

legge 426/1998 art. 4, punto 21 (Gli scarti derivanti dalla lavorazione di metalli preziosi avviati in conto lavorazione per l’affinazione presso banchi di metalli preziosi non rientrano nella definizione di rifiuto di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e pertanto, limitatamente a tale disposizione, non sono soggetti alle disposizioni del decreto stesso. Nel termine “affinazione” di cui al presente comma si intendono ricomprese tutte le operazioni effettuate sugli scarti dei metalli preziosi, che permettono di liberare i metalli preziosi dalle sostanze che ne alterano la purezza o ne precludono l’uso;

2) ha impedito esplicitamente che qualcosa transitasse nel mondo dei rifiuti, ma non “mascherandolo” da prodotto bensì stabilendo per legge il non concretarsi del concetto di “disfarsi” con la legge 155/2003 (cd. “del Buon Samaritano”) in ordine ai prodotti alimentari. 

Scorciatoie diverse, basate sulla lettura personalistica del concetto di rifiuto inducono una inevitabile disparità di trattamento che produce eventi privi di direzione, sdoganati dal passaporto della “solidarietà”, dove il rifiuto (con la sua mole di adempimenti, oneri, garanzie finanziarie, autorizzazioni, controlli, patemi e incertezze) semplicemente non esiste. 

Occorre chiarezza e questa non può essere fatta semplicemente allargando le maglie della “legge del Buon Samaritano”; diversamente un pericoloso smarrimento potrebbe attraversare il nostro fragile sistema di gestione dei rifiuti intesi come risorse.

 

Un passaggio epocale

L’economia circolare segna un passaggio epocale, ha il difetto di essere ardito, ma il pregio di essere inevitabile. Occorre allora risalire un sentiero perché i segni predisposti sul terreno sono stati mossi e confusi e le tracce esatte dei confini sono perdute. E allora il rifiuto deve essere liberato dal disagio del “disfarsi”, tornando al concetto di abbandono e di res nullius; deve essere affrancato dalla morsa della giurisprudenza Ue che obbliga a una interpretazione restrittiva della relativa nozione. Questo è il passaggio più difficile, dove aspettano prove inattese, saperi e spessori ancora non sufficienti per cambiare le regole del gioco. Eppure va fatto perché il geometrico fluire della realtà dei fatti è semplice: i rifiuti devono essere solo quelli che arrivano in discarica. Il resto è risorsa. 

Se questa soluzione appare troppo “ardita” o “sconveniente” occorrerà in subordine chiarire che il riutilizzo riguarda solo quanto esita dalla preparazione per il riutilizzo. Sarà questa una possibile ed estremamente praticabile via per ridare fiato alla potente (e mai fino in fondo compresa) industria nazionale del riciclo. Se il mercato è davvero libero, le regole devono essere più che mai chiare e uguali per tutti.

Diversamente, l’economia circolare si scontrerà con più di un imbarazzo interpretativo dovuto alle definizioni di cui a oggi si dispone. Il che è ancora più foriero di rischi alla luce della nuova legge sui delitti ambientali (68/2015).

Ma fino a quando si avrà il pudore delle parole e il delirio di norme fintamente prudenti, assisteremo alla concorrenza sleale che legalissimi sistemi di raccolta e riciclo di “non rifiuti” (dove gli investimenti sono minimi e per lo più in forza lavoro a basso costo) fanno ad altrettanto legalissimi sistemi che (con un perenne “confronto” con la Pa, investimenti in opere e mezzi, con personale specializzato, soggetto a formazione continua e assistito da piattaforme sindacali), operano sui “rifiuti”. 

Si è già detto che la differenza non è nel materiale, è solo nel nome. Un virtuosismo. Del resto, pecunia non olet. Sarà questo uno dei molti, difficilissimi, banchi di prova del decisore politico.