La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato martedì 6 febbraio il ritiro della proposta legislativa sulla riduzione dell’uso dei pesticidi e ha anche aperto a nuovi sussidi pubblici per chi lavora nelle campagne: “È necessario un incentivo reale che vada oltre la semplice perdita di rendimento ‒ ha detto ‒ i sussidi pubblici possono fornire tali incentivi”.

Un’apertura politica, elettorale nei confronti di una parte degli agricoltori, per calmare le proteste a pochi mesi dal voto europeo. Una protesta indirizzata verso una transizione economica che certo tutti ci saremmo risparmiati, specie se avessimo iniziato ad affrontarla negli anni Novanta seriamente. Ma che – dati i rischi per la sicurezza umana ed economica di medio e lungo termine resi evidente dalla scienza climatica – dobbiamo necessariamente affrontare. Altrimenti la prossima cura sarà ancora più dura e violenta.

Ha ragione von der Leyen quando dice che “i nostri agricoltori meritano di essere ascoltati, preoccupati per il futuro dell’agricoltura e per il loro futuro”. Ma ha anche ricordato loro che il cammino verso una produzione più sostenibile resta un percorso da cui non si può più tornare indietro: “Gli agricoltori sanno anche che l’agricoltura deve passare a un modello di produzione più sostenibile, in modo che le loro aziende rimangano redditizie negli anni a venire”.

Come hanno ripetuto da più parti analisti attenti, come Fabio Ciconte direttore di Terra! o il giornalista Stefano Liberti, la protesta non deve essere letta esclusivamente come una sfida all’Agenda verde dell’Unione – come hanno fatto con il solito pressapochismo i giornali italiani quando si parla di ambiente – ma deve essere analizzata nelle sue ragioni profonde e disinnescare subito ogni afflato populista o reazionario, contagiando una popolazione già terrorizzata dalla transizione ecologica.

Gli elementi della crisi dell’agricoltura (o meglio dei sistemi alimentari) sono in ordine sparso i seguenti: i mercati alimentari globali deregolamentati; la grande distribuzione organizzata europea (che vede l’agricoltore costretto a vendere sotto i costi di produzione), gli impatti di una crisi climatica non affrontata dagli Stati e dai principali responsabili (Shell, BP, Aramco, ENI, etc), la crisi della biodiversità diffusa portata avanti soprattutto da Big Food come Nestlè, JBS, Mondelez, Kraft-Heinz, Danone, Yili, Cremonini; la testardaggine di aver adottato troppo tardi modelli di agricoltura rigenerativa; la crisi del suolo e della sua fertilità; le potenti lobby della petrolchimica dei fertilizzanti (Westfarmers, Nutrien, Saudi Arabian Fertilizer, CF, Mosaic, etc); il sovraconsumismo alimentare (il 30% del cibo va ancora sprecato); l’eccessivo consumo di proteine animali.

Soluzioni concrete per un problema strutturale

La crisi dei nostri sistemi alimentari in Italia, Europa e nel resto del mondo è sistemica. È complessa, da far venire il mal di testa. E non è mai stata affrontata da nessuno come tale. Nonostante gli allarmi della FAO, nonostante l’Italia si dica paladina dei food system sostenibili, dello slow food, della dieta mediterranea, nonostante gli allarmi del mondo ambientalista, nonostante gli studi innumerevoli.

Una fetta rilevante del sistema agricolo-alimentare è in cancrena. È vecchissimo, antiscientifico, sclerotico, viziato dal greenwashing, falsato da tradizioni alimentari e agricole inventate, da giochi di potere degni delle peggiori fantasie dietrologiche. Per cambiarlo serve una riflessione ampia e umile, da tutte le parti, dall’Europa ai contadini ai consumatori. Non certo gli assalti generalizzati al Green Deal ripetuti a vanvera da agit-prop come Danilo Calvani, ex fondatore della Lega nel Lazio ed ex leader del Movimento 9 dicembre-Forconi, protagonista di alcune mobilitazioni di piazza contro il Governo Monti nel 2012. O da altre figure emerse dall’oscurità che certo non rappresentano “gli agricoltori” ma al più una loro parte, politicizzata e per altro vicina a quei partiti che sognano di conquistare Bruxells con la scusa di “aprirla come una scatoletta di tonno” (film già visto), per poi soltanto sedersi su poltrone ben remunerate senza saper far nulla.

Rimane il problema vero di fondo: produrre cibo è economicamente insostenibile, per tutte le ragioni di cui sopra. E allora – come dice Ciconte – partiamo proprio dal valore e dal costo del cibo, da quanto dovrebbe essere pagato l’agricoltore per il proprio lavoro, da quanto la distribuzione (i supermercati) comprime il prezzo della parte agricola e produttiva e da quanto dovrebbe costare il cibo sullo scaffale di un supermercato e – aggiungo io – da quanto costano le esternalità negative legate a settori esclusi dall’ira dei contadini a cavallo dei propri trattori.

Perché nessun agricoltore chiede conto all’ENI o a BP per i danni climatici? Perché nessuno chiede conto a Monsanto o Westfarmers per i loro impatti sulla chimica agricola? Perché i piccoli e medi produttori non attaccano i giganti come Nestlè o Cargill per le loro politiche di commodificazione del cibo e di stritolamento dei fornitori primari? Bruxelles è un bersaglio fin troppo ovvio per sviare l’attenzione da responsabilità più profonde.

Ecco, ipotizziamo allora delle soluzioni concrete invece di attaccare politiche che in ultima istanza aiuteranno su clima e biodiversità proprio la sopravvivenza – in primis –del settore agroalimentare. Sarebbe rivoluzionario vedere ad esempio una politica di prezzi in chiaro che mostri al consumatore non solo il prezzo per unità di peso, ma anche il costo delle esternalità negative ambientali e sociali legate a un prodotto (impronta idrica, carbonica, etc); il prezzo del prodotto pagato all’agricoltore; il costo di rischio legato alla catena del valore del prodotto (ad esempio i costi assicurativi o i danni di settore). Ma basterebbe anche rivedere i criteri di erogazione dei finanziamenti agricoli tramite la PAC, la Politica agricola comune, che oggi grava per un terzo del bilancio europeo. Un terzo.

E allora cerchiamo queste idee anche tra chi si candiderà per l’Europa il prossimo 6-9 giugno. Chi si limita ad affossare quello che c’è e non sa proporre nulla non può essere un rappresentante eletto. Servono proposte e soluzioni, idee innovative e reti. L’agricoltura ha sofferto troppo a lungo. Sfruttiamo questo conflitto per ridiscutere un modello fermo al Novecento. Finché c’è ancora (poco) tempo.

 

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Immagine: Tim Mossholder, Unsplash

 

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