La polvere si è depositata, le bocce sono ferme, la COP28 è conclusa da due settimane. Spesso le grandi decisioni, gli eventi chiave, come l’ultima conferenza sul clima di Dubai, necessitano di tempo per essere lette e analizzate, confrontando opinioni e rileggendo appunti e testi. La fretta dei media e dei social ha consumato in meno di 48 ore tutti i contenuti del “EAU Consensus” il pacchetto di decisioni prese a COP28, senza troppo analizzare il tema chiave: cosa succede ora.

In questo editoriale vorrei iniziare una riflessione su vari temi trattati e approvati a Dubai nell’ultimo negoziato tenendo viva la discussione fino al prossimo negoziato, COP29 in Azerbaigian a novembre 2024.

Partiamo dalla decisione storica di “fuoriuscita dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato e equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza”.

Mentre la vulgata vorrebbe che un demiurgo scendesse in terra e chiudesse subitaneamente i portoni di raffinerie e centrali a gas, la natura delle COP e dell’Accordo di Parigi indica le imprese, la politica e i cittadini per l’implementazione nella propria nazione di riferimento delle decisioni stabilite all’interno della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici.

Fuori dai confini nazionali è compito della Farnesina stabilire, in ottica di multilateralismo, programmi in seno al G7 (che a breve sarà a Presidenza italiana) e G20, oltre che nelle sedi ONU, per collaborare con tutti i Paesi per la decarbonizzazione, specie quelli dove la transizione è più complessa (Golfo Persico, Russia ma anche Paesi del West Africa e Mediterraneo), in un graduale obiettivo di transizione. Al momento non esiste né un Trattato di non proliferazione delle fossili, che sarà fondamentale da approvare entro il 2035, né un piano G7/G20 di transizione giusta, ordinata ed equa.

Ma se la richiesta è di accelerare entro questo decennio – leggasi: nei prossimi sei anni – servirebbe avere, non più tardi della COP29 in Azerbaigian, un piano economico di transizione condiviso con tutte le parti coinvolte, dove le major petrolifere stesse delineano insieme agli Stati e alla società civile come gestire questa transizione in modo trasparente e ben pianificato. Opera titanica, che dovrà essere recepita e attuata dalla politica e della diplomazia.

A livello nazionale il discorso è altrettanto complesso. In Italia è tempo di instaurare un nuovo tavolo di lavoro interministeriale, fondato su un PNIEC ben più ambizioso (atteso a fine primavera 2024) con le principali società energetiche, con il settore dei trasporti e con il settore edilizio, gli ambiti più difficili di intervento. Una nuova piattaforma di sviluppo industriale, con un’ambizione addirittura superiore al piano di rilancio del Mezzogiorno, che sappia governare la transizione, movimentando le giuste risorse.

Una transizione dalle fossili giusta, equa e ordinata non è affare semplice in un Paese che di ordinato ha sempre poco, e si fregia di dare il meglio di sé nelle emergenze e nelle situazioni dove l’estro creativo e l’arte di arrangiarsi sono fondamentali, due luoghi comuni radicati quanto l’idiozia che le affermazioni portano con sé.

Il primo grande ostacolo è la decarbonizzazione dei trasporti. “Andate al diavolo, io voglio poter continuare a scegliere l’auto che voglio”, commentava un “fossile convinto” [sic] su LinkedIn in riferimento al risultato di COP28, che sottolinea l’importanza della mobilità elettrica. Se fermare le nuove esplorazioni oil&gas risiede in ultima istanza nelle aziende come Eni&Co., la mobilità è una questione che coinvolge tutti i cittadini e tutte le cittadine, specie in un Paese autocentrico come l’Italia, che, vecchia e impaurita, teme di prendere la metro o disdegna la bicicletta per non sporcarsi gli abiti firmati.

Il Governo Meloni, se da un lato spingerà per gli automezzi su una elettrificazione ibridata dai biocarburanti (che già al 2030 saranno in larga parte precettati per il settore aereo), dall’altro ha il dovere di sostenere i nazionalpopolari mezzi di trasporto pubblico e la mobilità piedi/bicicletta. Serve avviare la riconversione del settore automobilistico, ripensare le infrastrutture della mobilità pubblica, investire realmente sulla mobilità a due ruote e fare della bikeconomy uno degli assi economici del Paese. La gran parte sono opere che esulano dal mercato, e ricadono sulle tasche dello Stato.

Un nuovo bonus edilizia

Discorso simile per le case. Idealmente dovremmo avere tutte le abitazioni dello Stivale elettrificate al 2050, il che significa una riduzione di centinaia di migliaia di caldaie fossili e sostituzione di fornelli a gas ogni anno, con un taglio importante già dal 2024. Visti i pessimi risultati energetici ed economici del Superbonus, trovare un meccanismo economico veramente efficiente è un rompicapo, su cui non esiste una task force all’interno del pigro e confusionario MASE. E soprattutto non ci sono nemmeno le risorse disponibili per un intervento di tale volume.

Serve di fatto un nuovo PNRR, ma generato direttamente dallo Stato, specie ora che si sputa in faccia all’Europa sul MES. In entrambi i casi la chiave potrebbe essere la riforma della fiscalità per sostenere la transizione. Si dovrebbe ragionare per una riforma pronta già dal 2025 su aumento dell’IVA e delle accise su tutti i prodotti fossili e riduzione su quelli a basso impatto carbonico. Sui trasporti si potrebbe pensare a un’IVA aumentata sull’acquisto delle auto non elettriche e una nuova accisa sui carburanti, ma già si immaginano le levate di scudi dei maschi cinquantenni, colpiti nella loro virilità a 8 cilindri. Idealmente si potrebbe creare un superbollo sulle auto sopra i 35.000 euro o un’altra iniziativa pensata per chi ha patrimoni importanti.

Sulla casa il tema è ancora più complesso: la cittadinanza ha dimostrato che solo quando i prezzi dell’energia fossile sono altissimi inizia a considerare risparmio, efficientamento, autoproduzione. E in uno scenario dove idealmente ci dovrebbe essere sempre meno domanda di petrolio e gas naturale, i prezzi dovrebbero scendere, non salire, rendendo più difficile l’abbandono di caldaie a gas o la spesa per coibentare condomini e villette. Dunque è urgentissimo studiare un nuovo bonus edilizia a basso consumo, in grado di respingere truffe, false rendicontazioni, sprechi e progetti di mediocre qualità, valorizzando architettura tradizionale e vernacolare e soluzioni low-tech.

Mentre rimane una cosa giusta protestare, fermando messe o lanciando acqua colorata sulle vestigia di un passato che non sappiamo onorare, la vera sfida, in ultima istanza, rimane sulla finanza e sulla fiscalità, tema noioso quanto centrale per il clima. Il principio cardine è stato sancito in maniera inequivocabile dalle Nazioni Unite, ma la complessità sta nell’implementazione e nella mobilitazione delle necessarie risorse economiche. Tema che interesserà il prossimo anno il difficilissimo negoziato di COP29, con la triplice sfida di rafforzare l’architrave globale della finanza climatica, darsi un nuovo obiettivo di lungo termine su mitigazione, adattamento, perdite e danni (New Collective Quantified Goal on Climate Finance), ma che sarà il tema cardine di ogni discussione sul clima, in Italia come all’estero.

Si deve iniziare una seria riflessione sulla nostra fiscalità, duramente sbilanciata sul costo del lavoro e di prodotti, meno sui patrimoni e l’intensità materica ed energetica. Se vogliamo accelerare, da Ultima Generazione a Palazzo Chigi, tutti si devono concentrare su questo astruso e fondamentale tema.

 

Immagine: DellaGherardesca, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons